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Fernando Garcia Barros

È il direttore dello spazio e progetto mARTadero in Bolivia, una realtà che da anni collabora con la Fondazione Rossi. «Qui l’arte non è solo espressione personale, ma uno strumento di cambiamento sociale».

Fernando Garcia Barros

 

Fernando Garcia Barros ha collaborato negli ultimi quindici anni a numerosi progetti con quello che era il Bice Bugatti Club, oggi Fondazione Rossi (per una descrizione dettagliata vedi riquadro in fondo all’articolo).

Da dove vieni Fernando?

Sono nato a Burgos, nel nord della Spagna, ma a 12 anni mi sono trasferito con la mia famiglia a Siviglia, una città vibrante e ricca di storia, dove ho sviluppato il mio interesse per l’arte. Siviglia è una città dalle forti radici culturali, con una tradizione artistica profondamente legata alla storia spagnola, è lì che ho iniziato a formarmi artisticamente, frequentando corsi di disegno e pittura.

Hai sempre studiato lì?

In realtà ho studiato scenografia e restauro a Siviglia, e quando ho avuto l’occasione, sono andato a Milano per continuare la mia formazione. Ho studiato al Politecnico, nella facoltà di architettura, e collaborato con gruppi teatrali locali, lavorando su progetti anche all’auditorium San Fedele. L’Italia ha una tradizione artistica molto radicata e viverla da vicino mi ha dato un’idea di quello che avrei voluto fare: unire l’arte alla valorizzazione del patrimonio, per renderla un ponte tra le persone.

E dopo l’università?

Finiti gli studi sono rientrato in Spagna, dove un’opportunità lavorativa mi ha portato prima in Siria, per il restauro del Palazzo Fagel Baroudi a Damasco, e poi in Bolivia. Doveva essere un progetto breve, legato ai sistemi informativi geografici, ma sono rimasto lì per molto di più. La Bolivia ha un fascino unico e qui ho trovato il contesto sociale giusto per lavorare sull’arte in modo innovativo.

Qual era?

Sono arrivato nel 1997 a Cochabamba, una città in cui il fermento sociale e educativo era palpabile. Viaggiavo molto tra le regioni del Paese, ma Cochabamba mi ha colpito subito per la sua vivacità. Lì sono entrato in contatto un progetto educativo sperimentale che coinvolgeva giovani indigeni da ogni angolo del Paese: era una Bolivia in miniatura, un ambiente interculturale dove le persone si incontravano e si mettevano in gioco. Questo luogo ha ampliato la mia visione e ha reso il mio percorso molto più radicato nel territorio e nelle sue culture. Devo dire che l’esperienza in Bolivia mi ha insegnato molto, soprattutto sul rapporto tra arte e società: qui l’arte non è solo espressione personale, ma uno strumento di cambiamento sociale.

Come nasce l’idea del mARTadero?

Ero impegnato in un progetto di architettura vicino all’attuale mARTadero, che all’epoca era un vecchio mattatoio abbandonato. Passando davanti a quello spazio ogni giorno, vedevo le sue potenzialità: un luogo centrale, carico di storia, ma ormai ridotto a deposito di mobili vecchi e in disuso. Nello stesso periodo mi stavo interessando all’arte contemporanea e facevo parte di un collettivo di artisti. Proposi alla curatrice Angélica Hequel, che sarebbe poi diventata la prima direttrice del progetto, di realizzare una mostra in quello spazio. Lei ne fu entusiasta e mi diede carta bianca per trasformarlo, cosa che non sarebbe stata possibile in altri luoghi. L’idea quindi è nata quasi per caso, ma ha preso forma rapidamente, trasformandosi in un progetto a lungo termine

Come si è evoluto il mARTadero da quel primo progetto?

Da quell’esposizione quello spazio è cresciuto molto, fino a diventare un vero e proprio centro di cultura sperimentale. Abbiamo fondato Conart, un’associazione che riuniva artisti, appassionati e operatori culturali boliviani, e iniziato a ospitare eventi ed esposizioni.

E oggi come definiresti questa realtà culturale?

In effetti è molto più di uno spazio espositivo. Il nome stesso gioca sul fatto che l’edificio era un mattatoio, ma contiene al suo interno la parola “Art”. È un luogo polifunzionale, che può essere visto come teatro, galleria d’arte, centro di formazione, ma in realtà è un laboratorio di sperimentazione sociale e culturale. Qui l’arte non è solo intrattenimento, ma anche uno strumento di dialogo e trasformazione.

Di chi è lo spazio del mARTadero?

Il Comune possedeva lo spazio, ma era quasi inutilizzato: solo un paio d’ore alla settimana per attività sportive durante gli orari scolastici, ed era anche pericoloso per i bambini a causa dei rifiuti accumulati. Così abbiamo avviato una trattativa per prenderne la gestione in un periodo fortunato, perché il 2004 in Bolivia era un momento di transizione. Il Paese, pur trovandosi a metà della classifica dell’Indice di Sviluppo Umano, era già culturalmente molto attivo e pronto a supportare iniziative innovative.

È interessante come il progetto sembri fondato tanto sulla comunità quanto sull’arte. È così?

Esattamente. Come ti dicevo, il mARTadero non è solo uno spazio espositivo: è uno spazio che raccoglie e valorizza le diverse identità e culture della Bolivia. La nostra è una “cooperazione culturale”, dove tutti, a prescindere dalle origini, portano valore. Nel tempo ho capito che nell’arte e nella cultura non c’è un rapporto basato sulla carenza, come nell’economia tradizionale, ma sull’abbondanza. Ogni individuo ha una propria creatività che può offrire agli altri. Per me, questa è la cooperazione più autentica: non uno scambio unidirezionale ma una creazione continua, dove ognuno contribuisce. Questa visione è stata fondamentale nel trasformare il mARTadero da semplice spazio culturale a vero e proprio laboratorio di tecnologie sociali, un punto di incontro in cui arte, società e innovazione si influenzano a vicenda.

Come vi organizzate per gestire uno spazio così dinamico e multiforme?

Il mARTadero si basa su un modello economico chiamato fluxonomia, o economia del flusso, che ci permette di sostenere economicamente lo spazio e mantenere la nostra indipendenza. Funziona su quattro pilastri: economia creativa, collaborativa, condivisa e multi-valore. Così, riusciamo a gestire risorse tangibili e intangibili, e a farle fluire tra i progetti. Siamo in diciotto, e il nostro lavoro è estremamente cooperativo: ognuno ha la libertà di proporre nuove attività, e insieme valutiamo come realizzarle. È un modello che si distacca dalla struttura organizzativa tradizionale, perché è in continua evoluzione e permette al mARTadero di essere sempre vivo, un vero e proprio “acceleratore di particelle sociali”.

Che tipo di pubblico partecipa alle vostre attività?

Il pubblico è molto variegato. Nell’arte si parla spesso di “pubblico”, ma non esiste un’unica categoria di spettatori. Le persone che vengono al mARTadero sono diversissime, proprio perché le nostre attività sono trasversali. C’è il pubblico più tradizionale, quello attratto dai concerti di musica folk, e ci sono i giovani che partecipano ai laboratori o assistono a mostre più sperimentali. Di recente, per esempio, abbiamo ospitato una mostra del pittore Roberto Mamani, le cui opere si pongono in dialogo con le nuove politiche sociali boliviane e per questo attirano persone che solitamente non si interessano di l’arte contemporanea. In definitiva, è un luogo in cui chiunque può trovare qualcosa di stimolante e sentirsi accolto.

Il pubblico che avete vi permette di sostenervi economicamente?

In parte sì: abbiamo diverse fonti di sostentamento. Un terzo delle entrate deriva dagli eventi organizzati nel mARTadero: dall’affitto dello spazio per le mostre o i laboratori, per esempio, tratteniamo una piccola percentuale dei biglietti venduti (l’80% va agli artisti, il 20% al progetto). Poi ci sono le residenze artistiche e la vendita di contenuti, come videoclip sotto copyright. Un altro terzo è rappresentato dai servizi esterni che offriamo, ad esempio la consulenza a musei e progetti culturali per enti internazionali come l’ONU. Infine, una parte delle risorse arriva dal sostegno diretto di organizzazioni che apprezzano il nostro lavoro e ci offrono finanziamenti e con cui collaboriamo. In genere, non partecipiamo a bandi di gara, preferiamo che le collaborazioni nascano in modo spontaneo.

Quali sono le collaborazioni internazionali più importanti che avete avviato negli anni?

Uno dei partner principali è la Fondazione Rossi, con cui lavoriamo da tempo. Insieme abbiamo dato vita a festival, mostre e scambi culturali. Di recente, alcuni dei nostri artisti sono stati invitati a esporre a Nova Milanese, un’esperienza unica per confrontarsi con un contesto diverso. La collaborazione con la Fondazione richiede programmazione e un coordinamento attento, ma per noi è un’opportunità preziosa per creare legami tra le culture. L’ultimo progetto realizzato insieme è stato la mostra Cartografie in conversazione Amazzonia Bolivia, che si è svolta a Villa Brivio di Nova Milanese nel settembre 2024, quando abbiamo esposto delle fotografie del territorio realizzate dal mARTadero. Stiamo lavorando anche con la rete Faro, che collega centri culturali di Spagna, Portogallo e America Latina: grazie a questo scambio, possiamo far conoscere la nostra esperienza all’estero e trarre ispirazione da altre realtà culturali.

Quali sono le principali sfide e come vedi il futuro del mARTadero?

Credo che la sfida più grande sia quella di mantenere il centro vivo e dinamico, cercando al contempo di ampliarne l’impatto sociale. Quando vivevo in Italia, frequentavo il Leoncavallo a Milano, uno spazio di aggregazione per persone di tutte le età, e volevo creare qualcosa di simile in Bolivia, un centro in grado di unire l’energia di un luogo occupato con la struttura di un’istituzione culturale. In futuro, vedo il mARTadero sempre più radicato nella città: stiamo lavorando nelle scuole, nelle piazze, con i gruppi di quartiere. L’idea è quella di uscire dai confini fisici del centro, per portare l’arte e la cultura in ogni angolo della città.

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 15 di Awand, primavera 2025.
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Antonio Ant Cornacchia
Antonio Ant Cornacchia
Grafico, art director, giornalista. Ha studiato all'Accademia delle Belle Arti. È il fondatore e direttore di Awand. C'è chi lo chiama Ant, che sta per formica.

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