TEATRO. Abbiamo incontrato uno dei maestri del teatro del Novecento, una vita tra Sud America ed Europa alla ricerca di un’esperienza estetica come rivelazione. «Tutta la mia vita ho lavorato senza dipendere da nessuno. In questo paese è un po’ difficile, perché o hai risorse economiche tue o devi chiedere lo spazio a qualcuno, e i teatri sono spesso occupati o legati a partiti ma io non voglio corteggiare i potenti.» Ci ha ricordato che «Dovremmo uscire dal teatro migliori di come siamo entrati: più aperti, più lucidi, più irrequieti.»
César Brie è nato a Buenos Aires nel 1954: era timido ma con un vulcano dentro e malgrado sua madre lo volesse “non ingegnere: scrittore”, è diventato uno dei maestri del teatro del Novecento. Vive ora in Alta Val Tidone (PC).
Stai creando l’Isola del Teatro: è una residenza?
Tutta la mia vita ho lavorato senza dipendere da nessuno. In questo paese è un po’ difficile, perché o hai risorse economiche tue o devi chiedere lo spazio a qualcuno, e i teatri sono spesso occupati o legati a partiti ma io non voglio corteggiare i potenti. Per diciannove anni sono stato in Bolivia dove avevo costruito un teatro e, dopo averne passati altri undici tra l’Italia e l’Argentina, dovevo scegliere come essere autonomo stando qui: nel 2021 ho trovato questa vecchia casa abbandonata con due fienili, una stalla, un piccolo frutteto e, grazie a un crowdfunding e a prestiti senza interessi di amici, l’ho presa. Ho adibito tre stanze a camerate, nella stalla ho fatto bagni, deposito e camerini, un fienile è diventato una sala di lavoro e l’altro lo diventerà. Faccio i miei corsi e il lavoro con gli attori, nascono relazioni diverse, come quelle che hanno portato alla creazione di Anchise, per le rovine romane di Velleia qui vicino. Se mi chiedono lo spazio per una ragione economica lo affitto o, se sono dei ragazzi che ne hanno bisogno e me lo chiedono, lo do loro in cambio di aiuto nel lavoro di ristrutturazione.
Cosa accade nei luoghi in cui ti fermi a lavorare?
Dipende: l’esperienza più importante è successa in Bolivia. Arrivavo da dieci anni in Danimarca e in Italia: a volte con l’Odin, perché facevo parte di un loro spettacolo (Talabot, Ndr) e poi giravamo molto con Iben (Iben Nagel Rasmussen, attrice nell’Odin Teatret, Ndr). E non ero più contento del teatro che facevo: mi sembrava una strada in discesa. Così ho cercato in Argentina, ma da lì ho deciso di migrare ancora e ho girato per Ecuador, Bolivia, Cile. La Bolivia era il paese più povero dell’America del Sud, parla spagnolo ma molto diverso dall’argentino e io volevo verificare se ero capace di fare teatro lì, per quella gente che non conosceva niente né dell’Odin né di me. Ho lavorato a stretto contatto con femministe, antropologi, comunità indigene e farlo mi ha insegnato a comunicare con tutti: intellettuali, studenti, persone analfabete che sanno riconoscere ogni canto di uccello possibile, sanno quale pianta serve a una cosa quale pianta serve a otra, e non confondono un pesco con un melo, hanno una cultura che non è fatta di nozioni. Mi ha affascinato e poi tolto molti pregiudizi, questa terra difficile, diffidente e tanto ricca culturalmente. Mi ha mosso ad affinare un teatro che appare semplice, ma di una semplicità che nasce dalla depurazione e nella composizione.
Come avete cominciato in Bolivia?
Ho comprato una vecchia casa abbandonata coi risparmi degli anni in Danimarca e in Italia. E creato un gruppo con persone che avevano deciso di correre la mia sorte. Abbiamo costruito una sala, comprato un fuoristrada che poteva caricare tredici persone, poi tutto il resto è venuto col tempo. Anche lo stipendio, che tutti avevamo uguale: ci siamo dati 10 dollari al mese, poi 20, poi 50 e quando io sono uscito, diciannove anni dopo, erano 150. Vivevamo in un modo estremo all’inizio, ma disponevamo noi delle nostre giornate: eravamo poveri e avevamo il tempo di indagare e creare. Ci interrompevamo per andare a fare qualche replica e riuscire a mangiare, e tornavamo: ogni giorno facevamo allenamento, preparazione, montaggio, creazione, improvvisazione e, quando finivamo tutto quel lavoro, a me mancavano ancora la scrittura e l’ufficio; facevo il regista, l’attore, il pedagogo, il drammaturgo e il segretario. Mostravamo gli spettacoli quando erano pronti, non prima. E io lì credo di avere trasmesso che se vuoi far qualcosa devi avere il coraggio, l’accoratezza e anche l’intelligenza per farla: bisogna ragionarla. Quando sono andato via, c’erano 3 ettari di terra, quattro case coi dormitori e sei cortili, una cappella con le campane forgiate nel 1880, una piccola falegnameria, la sala da lavoro di 15 m per 10, con la biblioteca e una grande cucina: era uno spazio immenso. Una piccola parte l’ho venduta e il resto l’ho lasciato a loro. E c’è ancora.
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