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Giancarlo Elfo Ascari

DISEGNO. Ha attraversato da protagonista molte stagioni del disegno e del fumetto italiano, da quella della Milano Libri di Gandini e Del Buono a quella del boom delle riviste, fino all’attuale in cui le riviste sono quasi del tutto scomparse e il formato graphic novel ha svelato le sue insidie.

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Giancarlo Elfo Ascari in un ritratto di Mattia Ascari

 

Giancarlo Ascari è nato nel 1951, vive a Milano quasi da sempre e nel 1968 è stato uno dei ragazzi del Movimento. Nei lavori che realizza in solitaria si firma Elfo, ma non ha mai letto, né mai leggerà, Tolkien. Ha attraversato da protagonista molte stagioni del disegno e del fumetto italiano, quella della Milano Libri di Gandini e Del Buono, quella del boom delle riviste, fino all’attuale in cui le riviste sono quasi del tutto scomparse, insieme alle storie brevi, ed è tutto un pullulare di graphic novel. È stato talent scout di tanti nomi molto noti e, mentre scriviamo, ha in corso da Nuages una mostra di disegni milanesi bellissimi.

 

Leggevo che tuo padre disegnava, tu disegni, tuo figlio Mattia disegna e anche del nipotino ogni tanto fai vedere disegni sui social. È il DNA?

È come nelle famiglie di artigiani, una questione di ambiente in cui cresci. Mio padre disegnava e dipingeva ma soprattutto insegnava Storia dell’arte al liceo, sono cresciuto in una casa piena di libri d’arte.

Hai scritto che quello che ti interessa è «raccontare le storie e le persone che attraversano un luogo nel corso del tempo». Come sei arrivato a capire che lo avresti fatto con il disegno, che il fumetto sarebbe stato il tuo linguaggio?

Già da bambino disegnavo tantissimo e su qualsiasi cosa, sulle buste, sui fogli che trovavo in giro. Alle elementari riuscivo a scambiare con gli altri ragazzini i miei disegni con le figurine. Non ho fatto nessuna scuola di tipo artistico, sono un autodidatta, mi sono sempre arrangiato da solo; per di più con un padre che pretendeva di insegnarmi la prospettiva ma io mi rifiutavo di impararla, mi sembrava un tormento. La mia via di fuga sono stati gli autori underground, erano la dimostrazione che si poteva disegnare senza conoscere perfettamente la tecnica, anche se in realtà Robert Crumb la conosceva benissimo. È stata la chiave di volta per mettermi a fare i fumetti, infatti i miei primi lavori sono strapieni di un tratteggio che copriva l’ingenuità del disegno.

Il tuo esordio arriva nel Settantasette su AlterAlter tra mostri sacri come Muñoz, Buzzelli e Corben. il direttore Oreste Del Buono deve averci visto lungo se, come dicevi un attimo fa, il tuo segno allora non era granché.

La prima cosa che ho fatto in realtà è  Lo Statuto dei lavoratori illustrato”, un libro disegnato con un segno un po’ esile. Io venivo da una formazione culturale e politica per cui mi interessava soprattutto raccontare quello che succedeva intorno. Prima avevo lavorato in un collettivo editoriale, il BCD, che faceva libri e audiovisivi per le scuole medie e per i corsi delle 150 ore. Avevamo fatto tra l’altro un libro sul mercato del lavoro e un audiovisivo sulla famiglia nella storia dell’umanità disegnato da Roberto Perini, realizzato come si faceva allora, con i carousel di diapositive temporizzati. Nel 1976 mi ero laureato in architettura con una tesi sull’insediamento degli immigrati a Milano, una ricerca sul campo per capire come si erano inseriti prima i meridionali negli anni Cinquanta e Sessanta e poi gli stranieri; un lavoro di due o tre anni nei quartieri a fare mappe e intervistare la gente. Un incrocio tra urbanistica e sociologia, per analizzare come la città si comporta nei confronti di chi arriva. Era un po’ quello che volevo fare anche a fumetti: nel caso di Valera, il mio primo personaggio, raccontare la città con un taglio tra la fantascienza, il sarcasmo, l’ironia e un po’ di Chandler. In realtà avevo disegnato solo due tavole della prima storia di Valera, le ho portate al Mago, una rivista della Mondadori. Beppi Zancan, che era un  direttore molto simpatico, guarda  le tavole e fa: «Sta roba per noi è troppo buona, le porti a Linus». A Linus Del Buono mi dice «Va bene, ne faccia otto tavole», e così ho cominciato. Probabilmente ci aveva trovato dentro un po’ delle cose che gli piacevano, un hard boiled un po’ sfatto ambientato sui navigli di Milano e poi il nome del personaggio, ripreso da un cronista dell’Ottocento. Non tutti conoscevano Paolo Valera, mi aveva molto affascinato un suo libro, Il ventre di Milano, storie di piccola malavita, una tentativo di fare lo Zola della Milano di fine Ottocento. Quella è stata la base di partenza, un incrocio tra la Scapigliatura milanese, il giallo americano e un po’ di fantascienza. Con tanto tratteggio.

 

(...)

L'articolo integrale è pubblicato nel n. 16 di Awand, estate 2025.
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Antonio Ant Cornacchia
Antonio Ant Cornacchia
Grafico, art director, giornalista. Ha studiato all'Accademia delle Belle Arti. È il fondatore e direttore di Awand. C'è chi lo chiama Ant, che sta per formica.

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