Awand. Rivista analogica di arti e creatività

Da più di sessanta anni è assoluto protagonista del cinema di animazione in Italia: i primi corti, la nascita dello Studio e la collaborazione con Guido Manuli, i leggendari lungometraggi West and Soda e Allegro non troppo, fino ai disegni animati per Quark di Piero Angela. Oggi vive l’impegno in difesa degli animali e continua a coltivare uno sguardo in cerca di prospettive inedite sul mondo.

bruno bozzetto

Bruno Bozzetto con Shila in una foto di Silvia Amodio

 

All’appuntamento per la videochiamata arriva in leggero ritardo perché ha dovuto portare uno dei suo cani al veterinario. E la nostra lunga conversazione viene interrotta un paio di volte, prima dalla vocina di un cartone animato che all’improvviso parte dal suo pc e poi dall’irruzione dei suoi amici a quattro zampe. “Adesso ci manca soltanto che arrivi la pecora!”, esclama. Bruno Bozzetto vive a contatto con gli animali e con la natura, di cui è innamorato difensore. Con lui abbiamo ripercorso le tappe più importanti di un itinerario artistico e professionale unico, che ha segnato la storia del cinema di animazione in Italia e non solo.

Quando è arrivato il suo primo contatto da spettatore con il cinema di animazione?

Penso di avere cominciato con Biancaneve. Non ho però nessun ricordo di quel film, mentre ricordo con affetto Bambi, che ho visto qualche anno dopo. Avrò avuto sette, otto anni.  Ricordo che ero letteralmente scappato al cinema per vederlo. Bergamo è una città piccola. In quel periodo poi c’erano pochi cinema, non circolavano automobili e non c’erano particolari pericoli ad andare in giro. I miei mi rintracciarono e mi presi una bella sgridata perché ero andato via senza avvisarli. Con quel film ho iniziato a riflettere sulla natura in maniera piuttosto profonda. Ho capito per la prima volta cosa rappresenta l’uomo per la natura. Quando i cerbiatti vedono il fuoco in fondo alla valle e dicono “è arrivato l’uomo, dobbiamo fuggire” ho capito tutto: avevo visto l’uomo dal punto di vista degli animali. Per il resto vedevo ben poco perché in Italia in quel periodo non arrivava altro. Usciva un film Disney all’anno ed era un avvenimento che si attendeva con grande entusiasmo e grande curiosità. Tutto cambiato rispetto ad oggi, quando esce un film nuovo ogni settimana.

Il suo primo approccio alla cinepresa avviene con cortometraggi di cinema dal vero, quindi non con l’animazione. Come nascono questi primi esperimenti di regia?

Da ragazzino ero veramente infatuato del cinema, appena potevo scappavo in sala. In quel periodo vedevo soprattutto film di guerra, come Obiettivo Burma! o Bastogne, ma quello che mi appassionava era il mezzo di comunicazione. Ho sempre trovato il cinema straordinario perché riesce ad essere falso in una maniera meravigliosa: giri una scena oggi, ne giri un’altra tra quattro giorni in un altro posto, nel montaggio le unisci e magicamente funzionano. Mio padre mi aveva comprato una piccola moviola per pellicola 16 millimetri e ricordo che all’epoca il montaggio era incredibile: dovevi spazzolare la pellicola, mettergli la colla, incollare, aspettare che asciugasse, e se sbagliavi un taglio erano problemi seri perché avevi perso un fotogramma. Ho cominciato coinvolgendo come attori i compagni di scuola, il figlio del portinaio, gli amici. Mi inventavo delle storie, dei gialli o piccole avventure, e giravo sui terrazzi o in casa. Mi piaceva molto ma mi resi subito conto che fare film dal vero era molto complesso, anche perché ero solo. Contemporaneamente guardavo film d’animazione, e mi accorgevo di avere una certa facilità a realizzare un certo tipo di disegno, sicuramente non accademico. Non ho mai frequentato scuole d’arte o accademie, ho fatto il Liceo Classico e poi mi sono iscritto all’Università. Ho cominciato allora a fare delle prove su un banalissimo block-notes di quelli che si comprano in cartoleria. Cominciavo a disegnare sull’ultimo foglio, lasciavo cadere il foglio precedente davanti in modo da vedere in trasparenza qualcosa, e disegnavo spostando leggermente il personaggio. Poi filmavo i disegni, fotogramma per fotogramma, con le prime macchine 8 millimetri, e scoprivo che il disegno proiettato si muoveva. Tutto questo l’ho imparato leggendo l’unico libro in circolazione in quel periodo in Italia, How to cartoon di Halas e Privett. Un libretto che aveva poche fotografie in bianco e nero e qualche disegno che spiegava i trucchi elementari. Poi a Milano c’era la USIS, United States Information Service, che forniva film di animazione da proiettare a vari enti. Mio padre, presidente di una associazione, aveva preso da loro un paio di film di animazione, straordinari, della National Film Board del Canada. Erano elementari come disegno ma molto vicini al mio stile, mi avevano entusiasmato. In moviola me li studiavo fotogramma per fotogramma. Da lì ho imparato e rubato molte cose che ho utilizzato dopo.

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 13 di Awand, autunno 2024.
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Stefano Lorusso
Stefano Lorusso

Medico e cinefilo, affianca da anni al camice bianco l’amore per il cinema, considerandolo la migliore delle terapie. È stato collaboratore della riviste Nocturno e  I-filmsonline. Dal  2010 è nella redazione di Paper Street , per cui segue ogni anno la Mostra del Cinema di Venezia.  È autore di saggi pubblicati sulle raccolte Il Divo di Paolo Sorrentino – La grandezza dell’enigma (2012) e Cento registi per cui vale la pena vivere (2015), editi da Falsopiano. Ha collaborato alla creazione del portale Longtake con schede sul cinema di Spielberg, Antonioni, Rosi, Wenders. Nel 2017 fonda il circolo di cultura cinematografica “Formiche Verdi”, attivo nell’organizzazione di numerose manifestazioni e rassegne. Speaker radiofonico, cineblogger, collezionista, esplora il cinema in molte direzioni, dalla ricerca musicale a quella iconografica legata alla produzione di manifesti e locandine.

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