Cinema. «Il documentarista è quella persona che riesce ad ascoltare e a far diventare narrazione qualcosa che non ha controllato, è uno che riesce a perdere il controllo.»
Andrea Segre in un ritratto di Valeria Fioranti
È uno dei documentaristi italiani più vivaci, più di ogni altro, Andrea Segre si è occupato delle migrazioni. Il suo sguardo è quello di un osservatore attento e curioso, saldamente schierato dalla parte dei respinti. Ha fondato Zalab, un collettivo di produzione e distribuzione in cui il cinema si misura con le sfide della contemporaneità.
Nel tuo film La prima neve un personaggio afferma che le radici sono il ramoscello sul quale come una farfalla si posa l’anima. Dove sono le tue radici?
La laguna è stato un luogo fondamentale della mia crescita. È un posto che ha segnato la mia necessità costante di uscire e rientrare dentro quelle radici. È uno spazio di mare protetto che non esiste se non dialoga con il mare, ma è anche il luogo dove ti puoi proteggere quando il mare è cattivo. Non a caso la potenza di Venezia nei secoli nasce da questa possibilità di proteggersi senza rimanere chiusa. Credo che un luogo così abbia segnato il mio modo di essere: sento di avere sempre bisogno di rompere i confini dentro a cui sono, ma ho anche bisogno di sapere dove ritrovarli, per tornarci dentro.
Nel tuo percorso di formazione e di avvicinamento al cinema quali sono state le tappe più importanti?
Ho scoperto il cinema come strumento per provare a raccontare e conoscere mondi altri. Tutte le esperienze che mi hanno portato a contatto con quei mondi altri e mi hanno aiutato a capire come raccontarli al mio mondo sono state formative, pre-cinematografiche. Io arrivo al cinema quando inizio a capire che quello è il linguaggio che mi permette di fare questo, ma ci arrivo abbastanza tardi. La mia formazione è da sociologo della comunicazione. Inizio a usare la videocamera per raccontare e piano piano questo diventa il mio lavoro. Sicuramente tutti i viaggi sono stati formativi. Non è necessario andare in luoghi esotici per trovare mondi altri. A volte li hai accanto a casa. Quello che mi interessa è scoprire quanto sia relativo il mio punto di vista e, relativizzandolo, capirlo di più. Inizio a fare i primi documentari per raccontare questi viaggi, tra l’Albania, la Tunisia e la Moldova. Il primo che porto a Venezia però è Marghera Canale Nord (2003), in cui racconto la vita dentro ad una nave abbandonata a Marghera. Un posto dietro casa, in mezzo alla Laguna, dove però arrivano otto marinai che vengono abbandonati dentro una nave dall’armatore che scappa e dalle leggi italiane che non sanno bene cosa fare di loro. Siamo nel 2003, anni in cui esiste a malapena l’inizio dell’immigrazione e le leggi sull’immigrazione sono poche. Ho fatto alcune esperienze televisive che sono state sì formative ma che mi hanno anche aiutato a capire che lì non mi piaceva stare. Un documentario storico sullo sterminio dei popoli zingari nel 1997, un documentario su Berlino a dieci anni della caduta del Muro nel 1999, ma quel tipo di racconto non mi convinceva. Mi piaceva di più il movimento che stava rinascendo di riscoperta del rapporto tra narrazione cinematografica e realtà. Lì mi sono tuffato e ho capito che i racconti che facevo dialogavano con quello che anche altre persone facevano. Ho iniziato ad essere invitato ai festival, a conoscere altri registi. Mi era sempre piaciuto il cinema come spettatore ma non ero affatto convinto di voler fare il regista. Strada facendo ha capito che invece era una cosa che mi stimolava, che mi permetteva di fare quello che sentivo come urgente: l’incontro con la dimensione relativa dell’esistenza.
Quindi il racconto sul versante televisivo non ti appassionava, non ti trovavi così a tuo agio su quel mezzo. Perché?
È la struttura della produzione televisiva che non mi piaceva. La televisione ha bisogno di definire una coerenza, un ordine, di impacchettare un racconto. C’è sempre un format che la accompagna, è inevitabile ed è giusto che sia così. Serve a creare continuità, riproducibilità, rapporto con lo spettatore. La ripetitività del format è fondamentale perché permette allo spettatore di riconoscere e abituarsi ad un determinato linguaggio. Il cinema per il suo rapporto singolo con la scelta fisica di andare in sala e starci per un tempo lungo, ha uno spazio di creatività e di indipendenza maggiore. Questo l’ho capito subito quando ho fatto le prime esperienze televisive: c’era una redazione che mi chiedeva di portare a casa determinati contenuti, ma questo bloccava il mio rapporto di conoscenza con i luoghi in cui andavo. Dovevo portare a casa ciò che mi chiedevano indipendentemente da quello che trovavo. Certamente anche in televisione c’è uno spazio di indipendenza e autonomia dell’autore, ma dentro ad un meccanismo che io ho sentito di voler rifiutare per scelta mia personale, nel rispetto di chi invece lo sceglie.
Nel preparare questa intervista ho visto alcuni tuoi documentari che non conoscevo, scoprendo la loro attualità anche a distanza di anni e il loro affrontare problematiche tuttora non risolte. Penso ad un film come Mare chiuso. Il tuo approccio al tema delle migrazioni, che è così dominante nel tuo cinema, da che tipo di sentimento nasce?
C’è stato un periodo in cui ho fatto cinque film uno dietro l’altro su questo tema, Come un uomo sulla terra (2008), Il sangue verde (2010), Io sono Li (2011), Mare chiuso (2012) e L’ordine delle cose (2017). Gli amici mi chiedevano perché facessi sempre film sull’immigrazione. Rispondevo che non sono film sull’immigrazione, ma su cosa ci sta succedendo all’interno di un fenomeno epocale. Ho sempre avuto l’impressione, e la storia me l’ha confermato, che quello che succede intorno a questo fenomeno è qualcosa di inarrestabile e che segnerà profondamente un’epoca. Avere incontrato a vent’anni esseri umani che di fronte ad un confine sbarrato, non per colpe loro ma per scelta politica di qualcun altro, decidono di attraversarlo e aver sentito che quella scelta è giusta, è stato il passaggio decisivo. Se sei seduto a un bar in Tunisia o a Valona e un tuo coetaneo ti dice che ha voglia di venire in Italia, non riesci a dirgli di stare a casa. Basta che ti metti in questa posizione e capisci perfettamente qual è la cosa che sta succedendo a te, non a lui: tu sei dalla parte di chi gode di un privilegio e sta cercando di nascondere il proprio privilegio chiamando gli altri illegali. Il punto di partenza io l’ho vissuto sulla mia pelle a vent’anni: ero seduto davanti al Golfo di Valona nel 2000 con un mio amico di 21 anni e guardavamo i gommoni partire. Lui indicando il gommone mi ha detto: “Sai cos’è quello? È il mio Erasmus.” Un po’ in anticipo ho avuto la possibilità di capire qual era la condizione esistenziale dentro la quale avremmo vissuto, stiamo vivendo e vivremo ancora per almeno altri 30-40 anni. Questa è una condizione drammaturgicamente molto intensa. Io su quella ho lavorato.
C’è un tuo film che si chiama Molecole in cui la dimensione dell’autobiografismo viene fuori in modo inatteso, forse per la prima volta. Sembra quasi che si sfondasse una parete. Cosa è accaduto?
Sono stato io ad essere stato sfondato da qualcosa che non avevo previsto. Il film è sgorgato da solo in una situazione del tutto particolare. Io mi sono lasciato trasportare da un processo creativo in qualche modo quasi primitivo. Mi sono detto: se la pandemia mi ha raggiunto mentre sono a Venezia un motivo ci sarà. Stavo leggendo proprio in quei giorni L’isola dei fucili di Amitav Gosh. Un libro la cui tesi esistenziale e filosofica è che se una cosa ti capita per caso non è un caso: se ti trovi dentro una situazione particolare, senza capire perché ti ci trovi, forse in qualche modo te la stavi cercando. Quando mi sono trovato in mezzo ad una Venezia svuotata e con le acque immobili, in una situazione totalmente imprevedibile e profondamente magica, ho deciso di rimanerci, di camminare e passeggiare e vedere cosa succedeva. Così è sgorgato fuori il film, andando in quella direzione lì. Quando quel film è diventato così intimo mi sono chiesto se era giusto dire al mondo le cose mie, cosa che non avevo mai fatto prima in maniera così esplicita. Allora ho scelto un modo per decidere se quel film doveva esistere o meno: l’ho fatto vedere a mia madre e mia sorella, prima di farlo vedere a chiunque altro. Ho chiesto a loro se poteva esistere. Loro mi hanno detto di sì, che secondo loro era un film con cui anche papà poteva in qualche modo parlare e quindi era giusto farlo. Poi l’ho mandato al direttore della Mostra del Cinema di Venezia e lui mi ha chiamato dopo tre giorni dicendo che era l’unico film sulla pandemia che aveva un senso, dopo averne visti centinaia. Con Molecole ha deciso di aprire la Mostra di Venezia nel 2020. La cosa più bella è stata che nell’arco della vita di quel film ho ricevuto decine di mail di persone che mi hanno raccontato il loro rapporto con il padre, con la madre, con la malattia, con il silenzio. Allora mi sono detto che il film andava bene, perché non parlava solo di me.
Nel tuo cinema le identità dei luoghi e delle persone emergono in modo preciso, definito. Cosa che non succede in buona parte del cinema italiano, dove la rappresentazione dei luoghi e delle identità locali spesso sfocia nello stereotipo. Vedi un rischio di omologazione nella rappresentazione dei luoghi nel cinema italiano di oggi?
Non nel cinema che frequento io. Tanti autori che amo e con cui cerco di confrontarmi hanno un rapporto intenso con il territorio. Penso ai film di Pietro Marcello, Alice Rohrwacher, Jonas Carpignano, Leonardo Di Costanzo, Daniele Gaglianone o Matteo Garrone, per parlare di uno di una generazione precedente alla nostra. Iniziano a crescere anche persone più giovani che lavorano in questa direzione, come l’autrice di Piccolo corpo Laura Samani. C’è un pezzo di cinema italiano che tiene ben presente l’importante lezione del neorealismo. Rossellini diceva che il luogo dove sei non è una location ma un personaggio, a cui bisogna saper dare voce. La cosa bella di quel personaggio è che non lo puoi controllare più di tanto. Devi imparare ad ascoltarlo. È difficile chiedere ad un cielo di piangere però il cielo sa piangere: devi essere pronto quando piange. Questa è una posizione registica che è la base di quella che possiamo chiamare esperienza documentaria. Il documentarista è quella persona che riesce ad ascoltare e a far diventare narrazione qualcosa che non ha controllato, è uno che riesce a perdere il controllo. C’è invece una linea di cinema che può andare verso la profonda invenzione di fantasia, che arriva fino alla fantascienza, o che va verso il commerciale, il seriale, che ha bisogno non di ascoltare qualcosa ma di costruire costantemente qualcosa. Sono due posizioni creative e registiche diverse. Io mi riconosco in questa ma non sono certo l’unico. Mi diverto tantissimo ad essere in una posizione di scarso controllo. Poi ovviamente il cinema, l’industria ha bisogno di controllo e di gestione perché ci sono tanti soldi in ballo. Però costruire situazioni in cui non sai esattamente cosa ti succederà è sempre molto potente, permette ai luoghi di dire qualcosa insieme a te. Imparare ad ascoltarli è un pezzo importante per me dell’essere regista. Ci sono colleghi che ne hanno paura o dicono che è noioso, che invece è molto bello controllare. Come nel caso del televisivo sono totalmente rispettoso anche di quella posizione, anzi la invidio. Una delle persone che invidio e al contempo stimo di più in assoluto nel mio mestiere è Aki Kaurismaki. Lui fa la cosa che faccio io: prende la realtà e la osserva, ma poi la trasforma in una fiaba che è surreale e reale contemporaneamente. È una magia, ma bisogna averla dentro.
Nel tuo cinema che è fatto di incontri con popoli e culture diverse, sono più le cose che hai dovuto imparare o quelle a cui hai dovuto rinunciare? Ti sei dovuto attrezzare con qualche strumento o hai dovuto rinunciare a qualche zavorra?
Tutte e due le cose. La posizione più importante per imparare qualcosa è sempre partire dalla propria ignoranza, sapere che cosa non sai. Ti devi spogliare di difese rispetto all’ignoranza. A volte fai finta di sapere delle cose per non trovarti spoglio davanti al tuo limite. Invece essere pienamente cosciente della tua ignoranza e poter andare dove quella consapevolezza di ignoranza ti guida è la cosa più interessante. Per me ogni progetto parte esattamente da questo: quando capisco che c’è qualcosa che non ho capito il motore energetico per fare il progetto è più potente di qualsiasi altra difficoltà. È questo che mi spinge poi fino in fondo anche di fronte a problemi economici, strutturali, a tempi e attese che nel mio mestiere sono costanti. Sto scoprendo una cosa che non sapevo, ve la devo dire perché forse anche voi non la sapete: è allora che si accende il motore di ogni nuovo progetto. E questa dimensione non è puramente informativa. È anche esistenziale, estetica, narrativa. Non è soltanto dare una notizia. Ho sempre lavorato al confine tra cinema e giornalismo. mi piace che i miei film aiutino a dare notizie, ma il cinema non lavora sui tempi e sugli spazi della notizia. Quando lavoro con i miei amici giornalisti che coinvolgo nei film loro mi dicono: quanto ci mettiamo a far uscire questa notizia? Tra quando la intercetti e quando esce possono passare mesi. La notizia che mi interessa è talmente simbolicamente potente che riesce ad essere notizia per un tempo molto lungo. Mare chiuso racconta la notizia del respingimento, che è del maggio 2010. Il film poi esce nel 2012 ma se lo vedi oggi continua a raccontartela una notizia. Perché la notizia è per me, ma anche qui grande rispetto per i miei amici giornalisti che invece lavorano su un’altra dimensione, quello che ti permette di capire qualcosa profondamente, non è qualcosa di notiziabile in un tempo limitato. È l’opposto dello scoop, è uno “slow scoop”, è una cosa che rimane scoop nel tempo. L’ignoranza è una dimensione molto più lunga e non colmabile in una comprensione fattuale e limitata. Non è la conoscenza fattuale, limitata, magari data dalle lettura di un manuale, che risolve quell’ignoranza. Stare dentro un bosco di alberi per tanto tempo invece mi può aiutare a scoprire qualcosa davvero.
ZalabView è una piattaforma dedicata ai documentari. È l’ultimo anello di una realtà che si occupa di produzione e distribuzione come ZaLab, da te fondato. Nel vostro mettere su questa sorta di filiera del documentario cosa avete imparato, anche nel confronto con le grandi piattaforme?
ZaLab non è una classica casa di produzione, o una classica casa di distribuzione: è un laboratorio che tiene insieme molte di queste facce. Zalab è una fucina laboratoriale di tante sperimentazioni legate al documentario. Facciamo produzione e distribuzione ma anche laboratori, educazione all’immagine, progetti sociali. Siamo uno spazio in cui il rapporto tra cinema, realtà e azione è costantemente messo in gioco. Produrre e distribuire documentari oggi in Italia offre la grande gioia di incontrare spesso persone molto belle da conoscere e storie davvero magiche da ascoltare. Si scontra purtroppo contro il limite eterno del documentario, ritenuto in partenza più noioso rispetto al film di finzione. Lo vedo con i miei film: quando esce il documentario le sale ti concedono pochi giorni di programmazione. Dopo magari il film va anche molto bene, ma il punto di partenza è un punto di partenza ghettizzante. Il lavoro fatto in questi anni da Zalab e da tanti altri comunque lo ha ampliato e sghettizzato abbastanza, ma rimane il problema di partenza. In Italia sono cresciute le possibilità di finanziamento e di produzione di documentari negli anni e c’è uno spazio interessante di produzione. Personalmente non ho ancora mai lavorato per le piattaforme. Chi ci lavora mi parla di una grande fatica, di un rapporto con un controllo creativo ed editoriale molto forte. Colleghi che hanno provato a produrre cose con le grandi piattaforme multinazionali si sono ritrovati molto soffocati nella loro creatività, perché il format di cui parlavamo all’inizio è ancora più stringente. Ovviamente se arrivi al dialogo con una piattaforma con una grande forza autoriale dalla tua probabilmente quello spazio di dialogo è più libero. È una sfida, qualcuno riesce anche a vincerla ma indubbiamente le piattaforme non nascono come spazio di libertà e indipendenza creativa dell’autore.
Per te la Mostra del cinema di Venezia è stata un trampolino importante. Come vedi il futuro dei festival negli anni a venire?
I festival hanno un ruolo importante di sostegno della creatività, della sperimentazione, del linguaggio più libero, e dialogano con la dimensione commerciale. Io stesso ho bisogno della dimensione commerciale, sono contento quando tanta gente va a vedere i miei film. Il festival aiuta a creare un dialogo con quella dimensione, tutelando e mettendo al centro la capacità di sperimentazione e di creatività degli autori. È lo spazio di incontro tra queste due dimensioni, ed è molto importante che continui ad esistere. Non a caso tutti i maggiori festival hanno sviluppato aspetti laboratoriali accanto alle parti di mercato: il Biennale College a Venezia, l’Atelier di Cannes, il TorinoFilmLab, il Forum di Berlino. Ogni festival ha sviluppato ambiti laboratoriali molto marcati perché sa che la forza dei festival sta nella continua innovazione creativa degli autori e nel creare un dialogo con la parte commerciale, senza sbilanciarlo. È il mercato che deve saper dialogare con la creatività autoriale.
Sui temi dei diritti e dei modelli di sviluppo, rispetto a scelte politiche nazionali e internazionali che negli anni sembrano andate in direzioni sempre più lontane da quelle che auspicavi, che reazione provi?
So benissimo che il potere sta alzando barriere sempre più forti e sta convincendo sempre più persone che quelle barriere sono necessarie. Dall’altra parte so anche che il movimento delle persone sta vincendo. Ci occupiamo tantissimo di Lampedusa ma a Lampedusa non arrivano i filippini, i peruviani, i colombiani che vivono nelle nostre città. Arrivano in un altro modo, e noi non ce ne accorgiamo. Ci concentriamo semplicemente su imbuti in cui l’attenzione mediatica è più alta, e su cui il consenso politico gestisce quell’attenzione. Ci sono tante altre persone per fortuna che, avendo vissuto la mia stessa posizione psicologica, aiutano quelle persone a viaggiare, con assistenza legale, con percorsi di integrazione, di accoglienza. Conosco centinaia di cittadini europei che tutti i giorni si dedicano a cercare di contrastare questa posizione di privilegio e di ingiustizia che capiscono essere insita nel momento storico in cui viviamo. Io sto da quella parte e do una mano il più possibile, perché penso che sia necessario lottare contro questa ingiustizia. Dall’altra parte il potere è molto forte e sa soprattutto bene che poter gestire il consenso legato a quell’imbuto mediatico di cui parlavo funziona molto bene. Questo accade sia con il potere che punta alla chiusura sia con un altro tipo di potere, che apprezzo moralmente ma che non mi appartiene, quello umanitario. Le grandi ONG internazionali, le multinazionali dell’umanitario raccolgono migliaia e migliaia di euro ma lottano poco contro le leggi che stanno a monte. Occuparsi di salvare i corpi è una cosa sacrosanta, ma non è lì che si gioca la questione. Per fortuna esiste una società civile, un movimento di persone molto diffuso e capillare in tutta Europa che quotidianamente cercano di dare risposte e trovare soluzioni per aggirare legalmente o anche illegalmente, se necessario, i divieti che ritengono ingiusti. Nel 2006 nel film collettivo Checosamanca raccontavo di un gruppo di cittadini in un paesino del profondo Veneto che cercava di fermare la costruzione di una nuova fabbrica nella loro zona industriale. Sembravano degli eretici nel chiedere un rallentamento dello sviluppo in un momento di fortissimo boom del nord-est. In realtà stavano anticipando il futuro e capendo che serviva un rapporto diverso tra quel tipo di sviluppo e altre dimensioni della vita. Questa cosa oggi l’abbiamo capita. Trasformarla in veri cambiamenti è più difficile.
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