Nel 2010 il musicista rispondeva «Se non ti fai male, se non ti sporchi le mani, se non partecipi della realtà oggettiva, non puoi essere espressione del tuo tempo. Questo mi sembra che manchi molto al nostro tempo: una maggiore urgenza espressiva».
Partiamo dal titolo del tuo nuovo disco, “Sangue Bianco”. Questo concetto a cosa è legato?
È una delle immagini più essenziali e che più rimanda all’essenzialità del disco, però è anche uno dei concetti più difficili da sintetizzare, perché il titolo di per sé già dovrebbe essere una sintesi. Il disco è permeato di una grande fisicità, carnalità, in tutti i pezzi; però, a partire da quella, c’è uno slancio verso un’osservazione meno carnale, più volta agli altrove, che possono essere per ognuno di noi qualcosa di diverso, di personale. Quindi questo sguardo al tutto partendo dalla propria soggettività, dalla propria carne, fa pensare al concetto del sangue come elemento biologico, fisico, materico e al concetto di bianco, che può essere la totalità, tutto quello che si vuole, quando si fanno pensieri complessivi, astratti, che cerchino di riassumere tutte le cose. Mettere insieme questi due concetti, che sono l’anima divisa a metà di questo disco mi è sembrato efficace con questo titolo. Però è anche vero che un titolo fa parte di un’opera, come anche un testo, e può essere vissuto anche senza darsi una spiegazione immediatamente controllabile, identificabile e intelligibile; ci si può abbandonare alla suggestione di queste parole. Le parole hanno la capacità di reinventare un mondo indipendentemente dal significato che rappresentano; anzi, forse sono esse stesse il mondo che rappresentano, e al tempo stesso il limite di rappresentazione. Quindi il titolo è quello che è, è un titolo.
Questo è il tuo quarto disco solista. C’è qualcosa che è rimasto in tutte le tue opere, e anche in questa, e qualcosa che invece rappresenta una novità o un cambiamento rispetto ai tuoi lavori precedenti?
La caratteristica di tutti i miei dischi è la ricerca del profondo; le mie canzoni non sono mai canzoni del quotidiano, non sono mai storielle, non sono mai storie d’amore, d’incontro, di separazione; non riguardano mai fatti politici o sociali particolarmente identificabili, ma coltivano tutte queste cose assieme, a partire da una visione più in profondità, un’immersione e un’analisi del profondo, non psicanalitica. Ciò che faccio non a niente a che vedere con la psicanalisi, così come non ha niente a che vedere con il cantautorato o cose del genere. È un modo mio personale di affrontare i significati delle cose che ci riguardano, non a partire dal quotidiano ma dal punto di vista della sensibilità profonda. Questa è la caratteristica che attraversa tutto ciò che faccio. Per quanto riguarda invece le differenze tra questo disco e gli altri, trovo che questo sia il mio “vero” disco nuovo, perché si distacca di molto da tutti gli altri, a partire dal fatto che è un disco fortemente musicale, intanto. Negli altri dischi la musica era molto importante, però a differenza delle altre, queste sono meno canzoni, sono più viaggi lisergici, d’introspezione, in cui il testo trova una sua collocazione musicale all’interno della struttura musicale e la canzone non è più tanto “canzone”, non sempre, perché qualche episodio di canzone c’è ancora; però ci sono molti momenti in cui mi pare di avere scardinato il concetto di canzone, forgiandone uno, a mio modo di vedere, meno vicino ai cliché e più vicino al concetto di musica in senso complessivo.
Su questo disco hanno suonato 25 persone. Come mai la scelta di aprirsi a tanti collaboratori, piuttosto che di lavorare con una band fissa di poche persone?
In realtà sono più di venticinque persone, ci sono tanti altri che hanno per esempio lavorato su brani che poi non sono entrati nell’album. Non è una scelta, è una condizione che trovi lavorando. Quando faccio dischi si apre un set non ben controllato e controllabile; accadono delle cose, e queste cose accadono in funzione del risultato che si vuole ottenere. È un lavoro di mettere insieme tante tante cose; si spiega così anche la ricerca di diversi studi. Non è megalomania, se lo è assolutamente inconscia, non voluta, ma è piuttosto l’esigenza di fare bene, di andare a cercare senza negarsi nulla l’essenza delle canzoni che si vogliono presentare. Quindi nel tentativo di fare questa ricerca ti doti di tanti strumenti e i musicisti che lavorano con me sono nella forma magnificata degli strumenti, sono persone che sanno mettere a disposizione di un progetto la propria creatività, la propria esperienza, la propria musicalità, il proprio lirismo. Tutto questo è funzionale al raggiungimento del risultato; spesso in una canzone ci sono 3,4 o 5 musicisti la cui partecipazione si risolve a pochi tocchi di pochi strumenti, per cui se non ci fossero loro il brano non sarebbe la stessa cosa, ma la loro partecipazione è funzionale a quella di altri per raggiungere un risultato. È così che si spiega perché c’è tanta coralità.
La resa live come sarà? Di certo non potrai portare tutti i partecipanti al disco in giro con te…
La resa live a questo punto sarà volta unicamente all’essenziale, il più possibile spostata sull’essenzialità. Il disco lo richiede, anzi chiama la condizione di essere essenziali. Quindi cercheremo di riportare le canzoni dal vivo con lo spirito con cui sono state concepite. Questo permette da una parte di realizzarle, dall’altra di fare una rivisitazione a nudo, di messa a nudo delle canzoni senza negare nulla delle canzoni stesse. Del resto questo è un disco che si muove per sottrazione, quindi se dal vivo riusciamo a presentare bene questa cosa, a mantenere questa dimensione, ci siamo. Tra l’altro sarà un disco che suoneremo molto dal vivo, a differenza di “Falene”.
Avete suonato anche al Premio Tenco pochi giorni fa. Com’è andata? E ti senti parte di quello che in teoria il Tenco dovrebbe rappresentare?
Mi sento parte della musica sensibile e quindi se il Tenco vuole essere vetrina della musica sensibile, della musica che non bada ai mercati, ma alla sostanza, certamente sì. Anche il semplice fatto che quello è il palco che ha visto uno dei più sensibili esponenti della musica italiana, cioè Tenco, esprimersi per l’ultima volta e lì morire, anche soltanto questo vale l’emozione di essere andati lì. Dopodiché io ci sono andato come ospite e non come candidato al premio e questo mi rende particolarmente soddisfatto; ci sono arrivato soltanto con la sostanza della mia musica, questo vuol dire che a qualcuno è arrivata questa sostanza e ciò mi rende particolarmente felice. È stata un’esperienza molto bella, si ha la sensazione di una grande centralità di quello che si sta facendo, di una grande attenzione. L’unico neo è che ho la sensazione che per avere questa attenzione si debba per forza andare in queste arene speciali, perché altrimenti la pigrizia e la scarsa attenzione che si sono diffuse in un paese come il nostro rischiano di rendere vano un lavoro, che è molto importante. Sembra che se vai nei posti che contano, allora esisti; se non vai lì, rischi di non esistere. Questa è la cosa meno nobile, da uno sguardo di insieme. Il Tenco fa quello che può, è un’impresa ardua quella di presentare il meglio, non ci si riesce mai, si può cercare arbitrariamente di indicare questa o quell’altra situazione. L’unica critica che farei al Tenco, molto affettuosamente, sarebbe quella di dare un occhio alle istanze più nuove, le più coraggiose e meno tradizionali, perché credo che sia in quello il futuro della musica.
C’è qualche nome che vuoi fare su questa linea? Gruppi o cantanti che ascolti?
Fare nomi è un po’ arbitrario, però posso dire che cosa mi ha impressionato: su disco la formazione che mi pare più significativa in questi anni è senz’altro il Teatro Degli Orrori, perché fanno una sintesi importante tra le istanze complessive del rock e della musica d’autore, concentrate in una formula davvero formidabile. Questo su disco, dal vivo tutto questo forse si disperde un po’; però su disco credo siano una delle realtà più riuscite che abbia mai sentito e che mi hanno più emozionato. E tra l’altro sono uno dei pochi casi in cui il valore viene riconosciuto.
Tornando al disco, tre testi sono riadattamenti di liriche di poetesse. Come le hai scelte? Cosa ti ha colpito di queste autrici?
È un’operazione che ho fatto più volte nella vita, perché esprimersi non è soltanto frutto di una visione personale, ma serve il confronto con altri. Anzi, esprimersi è un nutrimento reciproco che avviene tra te e il mondo; il mondo deve sapersi nutrire di te e tu devi saperti nutrire del mondo. Quindi io sento la necessità di confrontare la mia sensibilità con quella altrui; uno dei modi per farlo è proprio quello di affrontare, assumendosi i rischi e le responsabilità, l’opera di altri. Quindi, siccome ho grande affinità con il mondo femminile in tutti i suoi aspetti, ecco che è venuto quasi normale confrontarsi con tre poetesse. Nel caso di Else Lasker-Schüler è una poetessa che mi ha toccato particolarmente e della quale volevo provare ad affrontare il lirismo disperato, struggente, ma anche molto luminoso, molto vitale. Quello di Else è un canto di morte, permeato però di una grandissima vitalità e luce. Invece per quanto riguarda le altre due, una è Anna Lamberti-Bocconi, che è stata mia compagna di lavoro per molto tempo, di cui ho riadattato un testo che amavo molto, che mi sembrava una buona metafora della società in generale, delle società in cui ci muoviamo oggi, così pericolosamente a ridosso del baratro, infischiandosene del baratro che si avvicina. È una allegoria che vale per tutti i tempi in realtà, però oggi la sentiamo tutti quanti sulla nostra pelle, c’è molta più informazione, quindi anche l’uomo della strada si accorge di questa prossimità pericolosa. L’altra invece è Paola De Benedictis, con cui ho avuto un incontro fortuito che ho amato molto. La sua poesia è parossistica, iper-sessuata, ma anche molto sacrale, mi coglie nel segno, mi conquista. È stato un passo naturale, suo nei miei confronti e mio nei suoi, c’è stato questo sposalizio d’animo da cui è nata questa lirica, di cui io ho avuto la licenza di fare ciò che volevo; l’autrice è lei, io sono il riadattatore.
Oltre a suonare, tu scrivi e dipingi. C’è qualcosa in arrivo su questi due fronti?
Sulla pittura, devo dire che nella mia biografia è diventata un po’ un mito. È vero che io dipingo, però è più sensato ed onesto dire che io, prima di tutto, ho dipinto. La pittura è una dimensione talmente intima e richiede un impegno e una riflessione diverse che in questo frangente della mia esistenza non trovo, non ho. Quindi i miei dipinti attuali sono semmai le canzoni, sono gli scenari che si vedono nelle canzoni, se si vuole si vedono. La letteratura invece è il mio secondo cuore pulsante o, se vuoi, una metà del cuore pulsante. Questa invece è una dimensione sempre più potente nella mia produzione, che accompagna, cercando però di fare una doverosa separazione tra i due mondi. Faccio una separazione tra letteratura e musica semplicemente per evitare delle confusioni a cui vado incontro continuamente quando vengo presentato: musicista, pittore, filosofo, poeta, sono tutte qualifiche che possono anche riguardarmi e che mi lusingano, però creano anche molta confusione. Quando faccio il musicista io sono un musicista, quando scrivo sono uno scrittore; sono momenti diversi, richiedono concentrazione e dinamiche differenti. La musica è una disciplina condivisa, sempre mediata dal lavoro e dalla sensibilità degli altri, la scrittura no, è un fatto tuo, parte da me e arriva a te, singolarmente. Quindi sono due discipline completamente diverse. La scrittura ti disciplina molto perché ti devi imporre dei ritmi, dei tempi, delle cadenze, devi essere iper-critico con te stesso; per quanto tu debba rivolgerti agli altri, tu devi proporre quello che è il frutto delle tue riflessioni, quindi richiede molta autocritica. Poi questa distinzione che io faccio tra letteratura e musica alla fine converge in un’unica dimensione, perché è noto che nel nostro paese ci siano ancora troppi compartimenti stagni tra diverse discipline. Quest’estate ho codiretto con Giulio Mozzi un festival di letteratura. Mi sono accorto che moltissimi letterati italiani sono ignoranti in fatto di musica, nel senso che disconoscono la musica del nostro tempo, sono legati a dimensioni musicali molto andate. D’altra parte i musicisti sono poco lettori; credo che i casi eccellenti di musicisti siano anche lettori o comunque siano attenti osservatori di certe cose. Trovo che sarebbe molto importante per la cultura in generale di questo paese far convergere i due mondi, perché sarebbe un vantaggio per entrambi. Scrivere della letteratura del proprio tempo e disconoscere le più importanti espressioni di musica del proprio tempo è un grosso limite e lo stesso vale per l’altra dimensione: non si può fare musica sul serio senza conoscere la letteratura che vive nel tuo tempo; magari puoi non conoscere i classici, ma non puoi non partecipare di quello che permea, che riflette il tempo che stai vivendo. Il mio scopo è quello di far convergere queste due discipline, cercando di fare il vettore tra due dimensioni.
Come vedi la situazione italiana rispetto all’arte, a 360 gradi?
Come dicevo, la vedo pericolosamente suddivisa in compartimenti stagni e questo non mi piace. Non piace al mio spirito critico, non piace al mio bisogno di fare dell’arte qualcosa di veramente utile. Trovo che in generale, a fronte di alcuni talenti isolati molto forti, c’è una pericolosa diffusione di manierismo e di mestiere. Il mestiere non giova all’arte, l’opportunismo non giova all’arte. L’arte è una dedizione che non vuole compromessi, non vuole scorciatoie, non vuole accomodamenti. Quelli che pensano di scrivere in realtà sono dei raccomandati, pensano di far musica e in realtà vogliono una vita comoda e guadagnare molti soldi in fretta, fanno cinema e vogliono solo fare botteghino: questi non mi stanno simpatici e credo che facciano soltanto del male alla nostra cultura. Dopotutto noi abbiamo un fardello sulle nostre spalle da reggere che è molto importante, perché è il fardello di un passato, anche recente, fino a tutti gli anni ’70. Siamo stati ai primi posti nel mondo per l’espressione. E perché questo accadeva? Perché c’era una maggiore coincidenza tra vita ed espressione. Io penso che ci sia una divaricazione oggi tra queste due cose, penso che troppa gente oggi si illuda di poter scrivere vivendola come un impiegato o come un privilegiato. Se non ti fai male, se non ti sporchi le mani, se non partecipi della realtà oggettiva, non puoi essere espressione del tuo tempo. Questo mi sembra che manchi molto al nostro tempo: una maggiore urgenza espressiva. Su Pasolini si può dire quello che si vuole, era un uomo contorto, difficile, anche molto contraddittorio, ma era un uomo che si sporcava le mani eccome nella vita, altrimenti non avrebbe potuto produrre quello che ha prodotto; non era un intellettuale da salotto, con la pipa in bocca e con i libri alle spalle, era uno che prendeva e si metteva nelle strade e da lì capiva le cose.
Eppure oggi ci sono molti gruppi musicali o artisti in genere che utilizzano il nome di Pasolini, pur essendo lontani dal modo di vivere e interpretare la realtà che hai appena descritto…
Purtroppo sì; in questi anni la cultura è diventata un po’ un fumo negli occhi, una sorta di pretesto per darsi delle arie, per darsi un tono. In realtà la cultura è una cosa molto più spicciola, vitale, molto più quotidiana di quanto si possa immaginare, nel senso che devi sentire la vita davvero, devi partecipare della vita davvero. Non si può pontificare dai salotti o dall’alto delle vendite o, peggio, aderire ad iniziative editoriali di dubbia serietà, e poi sentirsi parte della vita del paese, parlare a favore degli operai e delle persone che hanno una vita difficile. Questo mentre tu sei garantito, pubblicato da editori in odore di evasione fiscale, hai il foulard di seta e una vita completamente distaccata dalla realtà. Non si può far politica, non si può far cultura così.
A proposito di politica e cultura, non credi che la crisi della seconda sia collegata direttamente alla crisi della prima? Anche chi fa politica ha lo stesso distacco dalla realtà, anzi maggiore, di chi fa cultura…
La pretesa di fare politica senza essere mai scesi in un campo di lavoro, senza avere mai condiviso le difficoltà di un salario precario, è impossibile. È pura retorica. Nel nostro paese per fare politica o sei ricco o punti a diventarlo; forse è un discorso da bar, ma se stringi tutto la sostanza è quella; finisce che poi tu come politico non puoi essere rappresentativo di quello che è il paese, che soffre ogni giorno una realtà difficile sulla propria pelle, senza dover teorizzare in un salotto televisivo o in un’aula di Parlamento. Lo stesso vale per l’intellettuale, che non è tale, è un vanesio e un esibitore di parole a vuoto se non riesce ad avere un contatto diretto con la realtà, quella delle cose spicciole che poi sono più grandi di quanto ci si possa immaginare. Però ripeto: penso che sia un problema generale del nostro paese, di coloro che finiscono per trovarsi, chi in un modo chi in un altro, ai centri di potere, che sia informativo, esecutivo o di altra natura: sono persone che dimettono, se mai l’hanno avuto, il contatto con la realtà. Questo li rende inefficaci e disegna lo scenario nel quale ci troviamo oggi.
8 Dicembre 2010 (Pubblicata su Vorrei)