Il chitarrista Agostino Tilotta ci racconta la vita di un gruppo nato a Catania nel 1987 e che da allora non ha mai smesso di girare il mondo sventolando la bandiera del Do it yourself: «Niente e nessuno ci spinge a fare nulla, amiamo l’energia detonante che il volume riesce a sprigionare. La melodia è l’inesauribile passione per tutto ciò che amiamo.»
Gli Uzeda ritratti da Davide Patania
Partiti da Catania, città dove ancora risiedono, hanno girato il mondo con l’intento di portare ovunque la loro selvaggia musica elettrica. Parliamo degli UZEDA, vera leggenda dell’underground. Abbiamo discusso con Agostino Tilotta, il chitarrista della band, per riepilogare la loro quarantennale carriera, all’insegna del Do It Yourself e della voglia di esprimersi ad ogni costo e con ogni mezzo.
Uzeda – Do It Yourself è il titolo del documentario di Maria Arena che racconta la vostra storia, ormai quasi quarantennale. L’etica Do It Yourself è alla base delle carriere di molte band nate negli anni 80, come voi. Cosa vi spinse a iniziare a suonare e a perseverare cercando di fare tutto o quasi da soli? Vedere che molte band, per lo più anglosassoni, ce la facevano in quel modo è stata una spinta in tale direzione?
Ci siamo messi insieme a novembre del 1987 formando il quintetto UZEDA, tre di noi provenienti da una band, e gli altri due da un altro gruppo della nostra città. Ognuno di noi aveva un bagaglio di esperienze musicali accumulate in tanti anni di militanza in parecchie altre band anche fuori città. Fin dall’inizio, il punto focale della nostra ricerca comune è stato il Suono, inteso come sommatoria di frequenze musicali in grado di arrivare al cuore dell’ascoltatore che, in piena partecipazione, libera la Fantasia, diventando egli stesso parte della Musica, o del concerto, sia fisicamente che spiritualmente. È stato questo il combustibile che ci ha permesso di inventare itinerari, occasioni e trovare possibilità, man mano che si presentavano, senza lamentarci mai nelle difficoltà, ma provando apprezzamento e gratitudine per tutto ciò che ci accadeva. Era, ed è ancora, come se tutta l’energia spesa, nei concerti o alla guida di mezzi (anche precari) per coprire migliaia di chilometri o durante le prove, si decuplicasse immediatamente subito dopo averla esaurita. Non abbiamo mai fatto troppi calcoli, eravamo pragmatici e fiduciosi, delle schegge colorate sorridenti in cerca di conoscenza, esperienza e persone con le quali condividere affinità, senza mai dimenticare l’obbiettivo di sviluppare il nostro Suono, ricercando un’attitudine capace di interpretare il tempo, per scavalcarne le mode e le abitudini.
Come vi sentivate nel contesto italiano ai tempi? E ora? Sembrerebbe che vi siate sempre relazionati maggiormente con scene estere, trasversali.
C’è stato un tempo in cui il Do It Yourself affascinava tantissimi gruppi, sia nel contesto italiano che nel mondo, e sembrava che tutti parlassimo la stessa lingua, quasi in nome di un’appartenenza comune, una scena o un movimento. Ma il passare del tempo, invece, ha dimostrato che anche il DIY, come altri scuotimenti socio-culturali, è stato per tanti un ombrello sotto il quale stringersi, più per stare insieme che per una vera comprensione di quell’idea. E ce n’erano altri, invece, che ipocritamente guardavano al DIY come a una sfavillante bandiera artistica da vendere a multinazionali affamate di facili classifiche in cambio di fama e denaro commerciale. Noi non avevamo aspettative se non quelle di suonare ovunque per conoscerne la cultura, anche attraverso il cibo; all’estero, infatti, non abbiamo mai cercato ristoranti italiani.
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