Tanto ammirato quanto schivo, nelle sue illustrazioni e nei suoi fumetti vivono personaggi surreali, ironici, poetici. Abbiamo chiesto ad alcuni suoi colleghi brevi riflessioni sul lavoro di un disegnatore straordinario, è nato così un ritratto a più mani firmato da Giancarlo Elfo Ascari, Igort, Lorenzo Mattotti, Giuseppe Palumbo, Sergio Ruzzier, Guido Scarabottolo, Antonio Sualzo Vincenti e Giovanna Zoboli.
Nella foto di Giancarlo Elfo Ascari, Franco Matticchio si nasconde mentre Guido Scarabottolo se la ride.
«Ogni disegno di FM è l’ingresso di un labirinto, ma fortunatamente ne è anche l’uscita. E i suoi disegni sono innumerevoli», lo scriveva Guido Scarabottolo all’ottavo dei suoi 15 punti intorno l’arte di Franco Matticchio nel 2012, ed è proprio all’ingresso di un labirinto che mi sento ora perché, diversamente da quanto avviene da tre anni in qua, questo numero di Awand non presenta l’intervista all’autore della copertina e del portfolio di disegni.
Per anni ho pedinato Matticchio per mostre e fiere nella vana speranza di convincerlo a rispondere a qualche domanda (cinquecentoquarantotto, per la precisione). Lui, come lo scrivano di Melville, preferisce di no. Alla fine ho rinunciato e dato retta a Nick Drake: il tempo mi ha detto di non chiedere di più («And time has told me not to ask for more», da Time as told me in Five Leaves Left, album del 1969).
Come alcuni mesi fa a Cremona — alla grande, splendida mostra curata da Fabio Toninelli per Tapirulan — per tracciare un ritratto di Matticchio ora dovrei dunque avventurarmi solo soletto nel labirinto delle sue illustrazioni e dei suoi fumetti e decidermi a scrivere di questo autore straordinario oppure chiedere aiuto alle sue stesse creature — vi ho già detto che ne sono perdutamente innamorato? —, potrei farmi guidare dal Signor Ahi (lui sì che ha occhio), potrei bussare all’albero degli scoiattoli e chiedere, mentre spadellano cotolette o stipano libri per l’inverno, se han voglia di raccontarmi qualcosa del genio di Varese. Potrei intrufolarmi nei sogni del gatto Jones o placcare la fanciulla fuggitiva, potrei sdraiarmi sul letto col pinguino-cuscino o stanare i bambini nascosti, potrei raggiungere quel Babbo Natale che scruta la Terra dal suo loft lassù nello spazio o lasciarmi travolgere dalla sensualità delle sue donne fatali; potrei — son cornacchia, diamine! — colmare il vuoto fra il primo e il terzo volume degli animali sbagliati, potrei interrompere il lupo e Cappuccetto Rosso che amoreggiano nel letto della nonna, potrei disturbare uno degli assorti lettori, immersi fra le pagine di un libro. Potrei fare le mie cinquecentoquarantotto domande ai suoi personaggi, meravigliosi, buffi, spaventosi, infantili, poetici, erotici, patetici, imbarazzati, assonnati, sorpresi, curiosi, pigri, annoiati, frenetici, ridicoli, eroici... matticchi. Ma scommetto che anche loro non direbbero nulla, Matticchio a ciascuno avrà fatto firmare un patto di riservatezza stilato da cinquanta puntigliosi avvogatti newyorkesi.
Scarabottolo, nei già citati 15 punti, pone al quinto «La semplicità e la semplificazione sono due cose completamente diverse, FM lo dimostra» e al sesto «La complessità e la complicazione sono due cose completamente diverse, FM lo dimostra», allora metto l’anima in pace, continuo a bearmi dei suoi lavori — vi ho già detto che ne sono perdutamente innamorato? — e nelle pagine che seguono affido ad alcuni suoi colleghi, che ringrazio di cuore, il compito di tracciare un ritratto a più mani e più voci di Matticchio e del suo lavoro.
Io me ne starò qui, come il gatto che guarda dal finestrino del treno, fingendo di pensare a qualcosa di importante e invece è tonno.
A proposito di FM
Giancarlo Ascari
Forse sono uno dei primi a cui è apparso il disegnatore Franco Matticchio, nei primi anni ‘80 del secolo scorso. Con sottobraccio un portfolio di quadri che occhieggiavano a Gnoli, si è affacciato alla cooperativa di autori di fumetti Storiestrisce in cui lavoravo. Ma portava anche alcuni disegni strabilianti, da cui uscivano echi di Gorey, Steinberg, Topor e tutto quanto fa la felicità di chi lavora con le immagini. Non fu difficile far pubblicare a Linus le sue storie del gatto Jones, che iniziarono ad apparire sulla rivista nel 1985. Fu più complicato convincere Matticchio a realizzare immagini per la pubblicità o la tv; settori che Storiestrisce esplorava allora, quando il fumetto godeva di grande favore nei media. Lavorare con Franco era un’esperienza mistica, fatta di illuminazioni e trepidazioni. Indossava la sua famosa timidezza come un’armatura, da cui si affacciava e in cui si ritirava con grande abilità; minacciando a volte di rinunciare a un progetto in corso e poi accettando malinconicamente di andare avanti. Però, se si sopravvive alle discese e alle risalite dell’ottovolante Matticchio, collaborare con lui può essere sublime: per creatività e bravura, Franco è uno dei massimi autori italiani. Ha realizzato copertine per il New Yorker, ha vinto un premio internazionale presieduto da Jules Feiffer, ha creato i titoli di testa animati del film Il Mostro di Benigni, ha disegnato centinaia di illustrazioni per riviste e quotidiani. L’unica cosa che gli si può rimproverare è di non avere mai prodotto un romanzo a fumetti e di aver sempre prediletto le storie brevi, spesso di una sola pagina. Ma, da buon collezionista di 45 giri qual è, Matticchio sa che nulla va dritto al cuore come una canzone di pochi minuti, una vignetta fulminante, un racconto di poche strisce. E lui vuole colpire al cuore.
Lunga vita a Mr. Jones
Giuseppe Palumbo
Non vedo Franco da venticinque anni, da quando gli chiesi di firmarmi una sua tavola. Gliene avevo chiesta una e lui me ne aveva portate tre, tutte belle; erano per un prestigioso almanacco d’arte che apriva le porte al fumetto e io ero deciso a offrirgli alcuni pezzi da novanta come Franco. Quando gli chiesi di firmarla andò in crisi; non era il posto, il momento e non aveva gli strumenti giusti. Io, che sono bestia, lo forzai a farlo… “Eccheccazzo Frà, devi solo mettere una M!”. Gli passai bianchetto e pennino: un disastro. Il bianchetto fece una macchia oscena (...a dire di Franco; niente che non si potesse, a mio avviso, sanare); dovemmo aspettare che fosse tutto ben asciutto prima di poter andarci su di pennino e anche lì gran patemi d’animo. Non l’ho più visto, Franco. Mai rompere le palle a gente come lui, dovevo saperlo. Lui vive nel rebus. Gli giunga tutta la mia stima e spero che lui accetti ancora la mia amicizia. Lunga vita a Mr. Jones!
(Post su Facebook del 2016, scritto in occasione della pubblicazione di Mr. Jones)
La cantina dove dimorano i sogni
Igort Fujikawaguchiko,
una sera d’estate.
Quando conobbi Franco Matticchio, prima per i suoi lavori e poi di persona, fu subito chiaro che mi ero imbattuto in un fuoriclasse. Certamente condividevo con lui diversi amori artistici eppure lui aveva il dono di sorprendermi e di portare sulle mie labbra quel sorriso malinconico di chi guarda alla vita senza più illusioni. Matticchio crea situazioni lievi e paradossali, gioca con i colori e con le forme in maniera irrispettosa. È un artista che ama lo sberleffo. Allunga corpi, li distorce, li mette in penombra, una penombra fitta di trattini, e li colora con i suoi celesti e verdini i polverosi. Ama le atmosfere, Matticchio, e in fondo credo che voglia bene ai suoi personaggi anche se poi li relega in cantina. E ce li lascia per anni e anni. Al telefono una volta gli chiesi perché non li riprendeva, quei personaggi, perché non faceva più fumetti. Lui mi rispose con una cantilena appena percepibile: “ mah, sai, fare i fumetti è difficile”. Non mi è mai passata, e sono trascorsi anni da allora, la sensazione di una leggera presa per i fondelli. Ma come? Lui che il fumetto lo doma come se fossimo al rodeo, conferendo alle sue tavole quel senso di ingenuità del cartooning delle origini, così intimo e pudico. Lui che i sogni li fa atterrare nello spazio bianco del suo foglio per poi proiettarli dentro di noi. Il suo lavoro sembra venire da un altrove lontano che risuona in ognuno di noi.
Andiamo Franco, tempera la matita. Non lo senti il gridolino tenue che proviene dalla cantina? Apri quella porta e regalaci altri sogni.
Un distillato di poesia, dolcezza, malinconia, ironia e leggerezza
Lorenzo Mattotti
Matticchio fa parte di quella strana triade del mondo dei fumetti che è la Mattioli-Matticchio-Mattotti. Per questo me lo sento vicino.
Bisognerebbe guardare un’immagine di Matticchio ogni giorno al mattino, ci farebbe bene. Un distillato di Poesia, Dolcezza, Malinconia, Ironia e Leggerezza che ci aiuterebbe a essere migliori.
Se un libro di Matticchio diventasse un best-seller vorrebbe dire che l’Italia sarebbe veramente cambiata in meglio.
Non so cosa dire di più se non che ama Nick Drake e ci trovo molte affinità. Forse Matticchio è il Nick Drake del disegno ma per fortuna nostra continua a disegnare ancora oggi.
Matticchio si schernisce dietro una apparente, snervante timidezza e insicurezza, in realtà è molto abile, spiritoso e preciso nei suoi gusti… per questo lo invidio molto perchè si difende tantissimo, rifiuta tantissimo e non fa interviste. Più saggio di così.
Gli voglio Bene.
La piccola fuggitiva
Sergio Ruzzier
Quando guardo il lavoro di un altro illustratore, soprattutto se bravo, spero sempre di trovare qua e là qualche errore, una caduta di stile, una sbavatura. Se capita, la cosa mi rincuora e mi permette di valutare i miei disegni con minor severità del solito.
Questa mia speranza è frustrata quando guardo i lavori di Matticchio. Ogni suo disegno è perfetto, che sia un acquarello rifinito, una china veloce, un qualsiasi schizzetto a matita senza pretese. Perfetto, nel caso di Matticchio, significa coerente, onesto, affascinante, sorprendente.
Il suo libro per me più bello è La piccola fuggitiva (Nuages, 2009). La bambina protagonista, di cui non si vede mai il viso e che sta scappando da non si sa chi o cosa, viene mostrata sempre nella stessa posizione del corpo, come fosse un soldatino giocattolo. E come si fa con un soldatino, viene piazzata in una sequenza di situazioni più o meno improbabili, pericolose, surreali. Confesso che mentre sfogliavo il libro per la prima volta, ho avuto la sensazione che mi trovassi davanti a una serie di immagini che, per quanto bellissime, non seguissero un vero e proprio filo narrativo. Insomma, pensavo non ci fosse una storia, ed ero un po’ deluso. Fino a quando non sono arrivato verso la fine. Un colpo di scena crudele mi ha fatto rimanere di sasso, disperato, malgrado un epilogo forse consolatorio che però non mi ha consolato. Senza rendermene conto, pagina dopo pagina mi ero affezionato a quella bambina, malgrado non sapessi nemmeno che faccia avesse.
Ecco, credevo di aver trovato un piccolo difetto almeno nel Matticchio narratore e invece niente.
Inchiostro su sarta
Guido Scarabottolo
Anni fa, lavorando a una breve prefazione per il catalogo di una mostra di Franco Matticchio, mi è capitato di scrivere “inchiostro su sarta” invece di “inchiostro su carta”.
Un normale errore di battitura, ma mi ricordo ancora questa cosa perché a suo tempo mi era sembrata illuminante.
Una perfetta lettura del procedimento di Franco che, attraverso un disegno semplice e classico, passando per la rappresentazione di situazioni familiari e quotidiane, trascina in un universo tranquillamente assurdo.
Allora mi sono immaginato Matticchio ridere della cosa sotto i baffi, che non ha, come gli capita di fare quando un suo disegno lo soddisfa.
Se non ricordo male ho lasciato l’errore nel testo.
O forse mi è rimasto solo nella testa.
I bambini nascosti
Giovanna Zoboli
Alcuni anni fa proposi a Matticchio il progetto di un libro, ma lui si sottrasse. La sua agente mi disse che fare libri lo metteva a disagio. Poi, in verità, Matticchio di libri ne ha fatti molti e tutti bellissimi. Probabilmente era il modo in cui glielo chiesi a essere sbagliato. Ancora me ne dolgo. Ma si vede che non era destino. Però siccome non sono un tipo vendicativo di Matticchio non posso che dire bene. In particolare, vorrei dire qualcosa sul suo ultimo libro “Bambini nascosti” che mi pare una sorta di summa del suo pensiero.
Mi pare che i bambini contenuti in questo libro siano diretti discendenti di Nevil, il bambino morto di noia in quel capolavoro che è The Gashlycrumb Tinies: or, After the Outing. Libro che Adelphi, suo editore italiano, definisce come “L’alfabeto più nero di Edward Gorey. E, paradossalmente, il suo libro più amato dai bambini”.
Nel libro di Matticchio il gemello di Nevil è Nereo: e non solo perché cominciano tutti e due con la N, ma perché come Nevil, Nereo si affaccia sgomento davanti a qualcosa che forse è un mare di noia.
L’incipit di Bambini nascosti è magistrale:
Nel principio
del cammin
di nostra vita
ci nascondemmo
in una selva oscura.
Il lettore, dopo averlo letto, scopre che suo compito, come quello della bambina in copertina che, fronte al muro, sta facendo la conta del nascondino, deve scovare i bambini che Matticchio ha nascosto nelle ventidue illustrazioni di cui il libro si compone. Ventidue, come le lettere dell’alfabeto di Gorey, e come i suoi ventidue bambini ritratti (quasi) tutti un attimo prima della disgrazia. I bambini di Gorey sono incappati nella Nera Signora (che ammiriamo in copertina) perché hanno fatto l’errore di rivelarsi, meno avveduti di quelli di Matticchio che per istinto conoscono la lezione di libertà contenuta nel nascondersi, nel sottrarsi alla vista. Nel mezzo del libro, infatti, apprendiamo che:
il bambino nascosto
non sta mai al suo post
libero e scomposto
fa sempre l’opposto
di ciò che gli viene imposto.
Il reale travestito da surreale
Antonio Sualzo Vincenti
Franco Matticchio non rilascia interviste. E vorrei vedere. Se io disegnassi come lui non ne farei nessuna. Non ne avrei bisogno, nessuno ne avrebbe bisogno. I disegni di Matticchio dicono tutto quello che c’è da dire su di lui e su di noi che li stiamo guardando. Dentro c’è il reale nella maniera più accurata in cui si possa descriverlo. Travestito da surreale, la poesia dei segni e dei colori di Matticchio ci srotola davanti la nostra esistenza. Fare dei paragoni è sempre di cattivo gusto, ma il modo in cui i disegni di Matticchio ti guardano mentre ti accosti loro l’ho trovato solo nelle opere di Roland Topor o di Roberto Perini che al mio occhio (orecchio) mi sembra siano in costante dialogo tra loro e con lui. Innamorato da sempre di acquerello e inchiostro, non so scegliere nella sua produzione se mi piacciano più le illustrazione a colori o a pennino, quelle tinte desaturate che sono quasi un tono di voce, o quella pioggia di segni sottili dai quali emergono visioni incredibili. Ma per fortuna lui si guarda bene dal chiedermelo.
(...)