CULTURA. Giornalista e ricercatrice, negli ultimi anni ha pubblicato alcune delle riflessioni più vive e militanti sulle politiche abitative «Fino agli anni Novanta c’era un equilibrio tra rendite, profitti e salari, tra la rendita e la produzione, tra le attività immobiliari e il lavoro, che oggi è saltato. Sempre capitalismo era, ma non così rapace.» «Oggi tutto è diventato tecnica, perdendo la sua dimensione politica. La politica è stata mangiata dall’economia e dalla finanza per ragioni profondamente ideologiche:»
Sarah Gainsfort in una foto di Lorenzo Marianeschi
Dopo essere rimasta sopita per decenni, la questione abitativa è ritornata prepotentemente nella discussione pubblica per la crescente difficoltà a trovare una casa nelle grandi città e non solo. Sarah Gainsforth, giornalista e ricercatrice specializzata nelle politiche abitative, negli ultimi anni ha pubblicato alcune delle riflessioni più vive e militanti su questo tema lavorando da freelance. Con L’Italia senza casa, il suo ultimo libro pubblicato con Laterza, esplora dati, storia e fallimenti delle politiche dagli anni Sessanta ad oggi. Una questione volontariamente affrontata male o non affrontata dallo Stato, che oggi richiede di tornare ad alcuni principi fondamentali pur di riportare una casa a tutte e tutti.
Nel libro del 2022 Abitare stanca sei partita dalla biografia della tua famiglia per parlare delle città e della crisi della questione abitativa. Perché hai deciso di scrivere L’Italia senza casa?
Premesso che la casa è il mio argomento preferito, la mia ossessione direi, su questa scelta ha inciso molto l’orientamento editoriale. Finora tutti libri che ho scritto sono nati soprattutto dalle proposte dei miei editori, a partire da Airbnb città merce, nato dal suggerimento di Roberto Ciccarelli, giornalista del Manifesto dove scrivevo appunto di Airbnb. In un certo senso, i miei libri sono nati grazie a relazioni, chiacchierate e suggerimenti più che a mie idee originali. Quello che sto scrivendo adesso, invece, nasce direttamente da una mia idea.
Abitare stanca è scritto in prima persona su richiesta di Effequ, il mio editore. Non ero abituata a scrivere così, poiché temevo di finire in una narrazione autocompiaciuta che non mi appartiene. Ora, io non credo nella possibilità di fare un giornalismo oggettivo, essendoci sempre un punto di vista: l’importante è dichiararlo. La disonestà sta nel non farlo: nel sostenere di essere obiettivi (ma non lo si è mai) e poi scrivere opinioni; la maggior parte del giornalismo in Italia fa questo. Ma insomma alla fine scrivendo quel libro mi sono divertita e ho cercato di cogliere tutte le potenzialità della prima persona. L’io con cui scrivo è tipico della letteratura working class ed è un tratto narrativo che ho ereditato da mia madre. Lei è inglese e a lungo mi ha raccontato dei quartieri e delle case del Regno Unito, sia secondo l’esperienza familiare, che nel più ampio contesto.
Quest’ultimo libro, L’Italia senza casa, nasce da un’idea condivisa con la casa editrice di scrivere un libro più pienamente saggistico, per certi versi più ostico degli altri vista la riduzione di elementi narrativi. Ci sono più dati che in Abitare stanca, qui.
In generale, il mio ruolo mentre scrivo è cercare di far emergere le connessioni tra le cose e tra i fenomeni ed è quello che ho cercato di fare anche qui.
In tutti i tuoi libri citi molto spesso la mancata approvazione della proposta del ministro DC Sullo nel 1962 come occasione persa per affrontare la questione abitativa. Sullo cercò di legiferare sulla rendita fondiaria per contrastare la speculazione edilizia dando più potere al decisore pubblico, senza successo. Da quel momento in poi l’Italia ha avuto altre occasioni per risolverla?
In tema di politiche abitative si possono distinguere varie fasi nella storia italiana, ma trovo particolarmente interessante quella dei primi anni Sessanta, periodo che vorrei approfondire in futuro perché si percepisce in quel momento, intorno al ’62, una grande spinta innovatrice, poi persa. Fino agli anni Ottanta il clima culturale in Italia permetteva di pensare novità radicali; poi, in quel decennio le possibilità si sono ridotte: è cambiato il clima, è cambiato il dibattito. Forse, solo con la pandemia abbiamo rivisto spiragli utili per riformare la questione abitativa, perlomeno come immaginari e possibilità che si sono presentate davanti a noi. La pandemia ha aperto una presa di coscienza collettiva sulla necessità, sulla possibilità, di cambiare rotta, di fronte a città svuotate e a una sanità al collasso. Ma come con la proposta Sullo, anche dopo la pandemia è partita subito una fase di restaurazione, di conservazione del modello malato di sviluppo basato sull’edilizia per come la conosciamo: un modello insostenibile a danno dei più poveri. Guardando strettamente la gestione del suolo come gestione degli interessi, dagli anni Ottanta hanno prevalso quasi del tutto quelli privati.
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