La sua passione per il disegno è nata leggendo da adolescente i manga, poi la Scuola di Urbino le ha insegnato a cercare una voce personale oggi molto riconoscibile: «Atmosfere non definite, un avvicinarsi al mondo del sogno, l’essere ambigui, lasciare molto allo spettatore. E un pizzico di ironia»
La prima volta che ho sentito parlare di Virginia Mori credo risalga al 2019, quando realizzò per un’azienda di abbigliamento l’immagine che vedrete girando la pagina. Illustrava la definizione della parola Sapiosexual, ovvero «sentirsi attratti dall’intelligenza». È, il suo, uno stile molto riconoscibile: nei suoi lavori molto spesso sono protagoniste giovani figure femminili disegnate in ambienti e situazioni extra-ordinarie e, quasi sempre, usando una tecnica poco diffusa che la contraddistingue a tal punto che da alcuni mesi è disponibile, fra le centinaia che offre la piattaforma web Domestika, un corso da lei curato intitolato “Illustrazione artistica surrealista con penna a sfera”. Formatasi alla Scuola di Urbino, anch’essa riconoscibile per uno stile molto poetico, ha alle spalle alcuni volumi pubblicati, cortometraggi di animazione (Il gioco del silenzio e Haircut) e si cimenta con tutte le applicazioni tradizionali dell’illustrazione: riviste, libri per l’infanzia e non solo, pubblicità. Unico assente, almeno per ora, il fumetto.
Quando e come hai capito che nella vita avresti disegnato?
La risposta è abbastanza lunga, però diciamo che come tutti ho iniziato a disegnare da bambina e non ho più smesso. Credo che la svolta decisiva sia arrivata con la vittoria della Call for project durante il Festival Internazionale di Animazione ad Annecy, in Francia. In premio ho ricevuto il finanziamento per un progetto di animazione.
Immagino che nel frattempo tu avessi già deciso che questa sarebbe stata la tua strada.
Ma no in realtà non era chiaro, in Italia poi quello dell’illustratore è un lavoro molto difficile da portare avanti, perché non so se c’è la considerazione, negli ultimi anni è maturata tantissimo, però al tempo, quando sono uscita dalla Scuola di Urbino, non sentivo di avere le competenze professionali. Ho fatto tutt’altro fino a quasi 28 anni, anche l’operaia in fabbrica; fare dei lavori che non mi appagavano, questa sensazione di oppressione per cui il lavoro che fai non ti soddisfa mi ha poi spinto a scommettere di più sull’attività artistica. Però non c’è stato un momento, è sempre stata una bilancia che oscillava tra “sì ne faccio un lavoro” e “no voglio che rimanga uno svago, uno sfogo di passione”.
La scuola cosa ti ha dato?
La scuola di Urbino mi ha aiutata a trovare un mio stile, con gli stimoli di professori che allo stesso tempo erano artisti — come Roberto Catani, Stefano Franceschetti, Anna Pagnini — trasmettevano agli studenti, lasciandoli comunque liberi di sperimentare e di trovare la loro strada. Questo approccio è rimasto nel tempo e cerco sempre di coltivare delle idee personali e di fare ricerca in un processo di evoluzione che non si ferma mai.
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