Awand. Rivista analogica di arti e creatività

Autore di fumetti, musicista, sceneggiatore e regista di cinema, direttore di Oblomov e Linus, Igor Tuveri ripercorre formazione culturale e carriera, attraverso le amicizie e le riviste, da un orizzonte all’altro del mondo. «Nel lavoro di un autore il processo è nella maggior parte del tutto inconscio. Si svolge in una sorta di camera oscura psichica. Nel mio caso è come “essere agiti”, il fumetto è il vampiro che guida la mia vita.»

 

Perché è così importante disegnare per te e che cosa è cambiato, come spinta interiore, da quando hai cominciato ad adesso che sei un autore affermato a livello internazionale?

Non lo so, non so dirti esattamente perché lo faccio. So solo che lo devo fare, e con il tempo ho imparato ad assecondare questa spinta. Più o meno attorno ai cinque, sei anni ho cominciato a capire che avrei voluto disegnare e raccontare storie. Ecco, questa idea si è fatta strada in maniera naturale. Ingenuamente credevo che anche i miei amici avessero chiara l’idea di cosa avrebbero fatto “da grandi”, solo dopo mi sono reso conto che non era sempre il caso. Molti miei compagni, negli anni del liceo, per esempio, entrarono in crisi, non avevano idea di cosa fare.

Questa specie di strana consapevolezza mi ha sempre incuriosito, e ultimamente ho indagato tra alcuni colleghi, da Burns a Loustal, da Mattotti a Carpinteri e altri per scoprire che anche loro più o meno attorno alla mia stessa età sapevano quale strada avrebbero intrapreso.

Mi capita, nei rari momenti in cui sono lontano dalla carta, lontano dal disegno, provo una specie di disorientamento. Allora ho capito che “lavorare” mi centra, che mi calma, come dice Muñoz. È un modo per capire, conoscere, decodificare. Sono degli occhiali per guardare il mondo.

Cosa c’è della Sardegna nel tuo carattere e nei tuoi lavori? Saresti lo stesso artista se fossi nato altrove?

Credo di essere nato un’infinità di volte prima di questa incarnazione sarda, quindi la mia “forma” è il risultato di tante esistenze, di tante sensibilità. Ho cominciato a disegnare l’oriente e il Giappone senza una ragione precisa. Erano dei tasselli di conoscenza che mi svelavano qualcosa di me.

Una volta Battiato mi disse che gli piaceva Herzog. Questa cosa non mi stupì, mi sembrava una cosa logica. Anche se non lo sapevo. Glielo dissi. Lui sorridendo rispose: “Attraverso le cose che ti piacciono, capisci chi sei”.

La Sardegna, il posto in cui sono nato; è un’isola, questo ha determinato, molto forte una spinta a varcare il mare. Probabilmente non sarei così determinato se fossi nato con una vita in discesa. Le salite servono per fortificare la struttura interiore.

L’avevi già fatto a lungo nel blog e poi nel libro Storyteller, ma sembra che negli ultimi anni ti stia raccontando personalmente in maniera più esplicita, penso anche all’altro tuo libro, My Generation. Perché questa esigenza?

Con gli anni si è rafforzata l’idea che non esistano cose “importanti” da raccontare e altre “meno importanti”. In fondo tutto è racconto e forse sotto sotto parliamo sempre di cose personali, di come vediamo il mondo: è quello che sottende a ogni storia.

Poi c’è un altro elemento, mi piace riflettere sul linguaggio. L’ho sempre fatto. Per dire, cosa diventa un fatto reale quando lo raccontiamo? Mi intriga il rapporto tra realtà e finzione.

In un certo senso credo di avere l’animo del cartografo, o se vogliamo quello di un archivista. Sono qualcuno che ordina, anche nella veste di editore ho svolto un lavoro di ricerca di nuove forme di storytelling, mi interessava portare in Italia cose che scoprivo nei miei viaggi e che ancora non si conoscevano. Penso al nuovo fumetto canadese, ma anche a Taniguchi, Tsuge o Maruo.

Ma a questo ho affiancato spesso la pubblicazione di grandi lavori ingiustamente dimenticati.

Credo che sia il lavoro di un editore, quello di generare una mappa. Una carta culturale. In modo da rendere possibile, la conoscenza e la comprensione, la portata di un lavoro.

Saper valutare e soppesare. Secondo me questa cosa è importante.

Oggi c’è un grave problema strutturale nel mondo del fumetto: va di moda il graphic novel e paradossalmente ci sono sempre meno persone che sanno raccontare. Com’è possibile?

È colpa degli editor? Non mi so dare una risposta.

Dal mio canto ho avuto moltissima fortuna nella mia carriera, ho incontrato persone eccezionali come Oreste Del Buono, come Jean-Paul Mougin, il fondatore di À Suivre, o Jean Pierre Dionnet, fondatore di Metal Hurlant. O come i miei grandissimi editor giapponesi, Tsutsumi e Kurihara, che mi hanno aiutato a crescere.

Già nel 2005 scrivevi infatti che «Oggi la battaglia è quella di costruire racconto, strade, piste, sentieri che portino a stratificazione». Più recentemente, mi è sembrato, hai lamentato l’assenza di autori capaci di affrontare grandi storie. È un segno dei tempi questo sguardo miope, figlio dei piccoli orizzonti a cui ci stiamo abituando?

Penso che ci siano onde. Quando, sul finire degli anni Settanta, cominciò a circolare il “nuovo cinema tedesco”, il Punk, la New Wave, tantissimi talenti grafici, Métal Hurlant, À Suivre, era facile: eri stimolato e ti misuravi con artisti dalla grande personalità. Erano ovunque: sugli schermi, nelle pagine delle riviste, nei libri. Oggi forse c’è l’inverso, una grandissima diffusione e anche fin troppa facilità a pubblicare…

Quando ho cominciato era difficile fare un tuo libro. Erano davvero pochi a farlo, Crepax, Pratt e una manciata di altri.

Il mio primo volume Goodbye Baobab vide la luce dopo quattro cinque anni di presenza continua sulle principali riviste nazionali, centinaia di pagine,
e ricordo che fu una conquista.

Adesso tutto è diverso, cominci pubblicando subito un libro anche se magari la tua voce non è definita o non sai precisamente cosa dire. È una stagione che offre molte possibilità, anche in chiave positiva, sia chiaro. Oggi puoi far conoscere il tuo lavoro semplicemente, puoi utilizzare la circolazione e la comunicazione per capire cosa viene capito del tuo lavoro. Ricevo decine di progetti ogni settimana e a volte mi chiedo “com’è possibile che uno spedisca a un editore un lavoro che chiaramente non è compiuto, non è rigoroso?”

Se guardo le mie vecchie tavole vedo che il difetto delle mie prime storie è che io ero troppo rigido, perché ero rigoroso a livelli vertiginosi, insomma il difetto opposto. Non dico di essere così maniacali, ma insomma, un pochino di selezione a volte aiuterebbe…

Mi ponevo il problema del “modo”, c’era uno sforzo molto forte per stilizzare, un lavoro per il controllo del segno, del ritmo. Ordinando i miei vecchi archivi ho rivisto le tavole dei miei esordi, rifacevo le storie una, due, tre, quattro volte, da capo, nel corso degli anni.

Quanto del materiale che ti arriva è frutto del lavoro di gente col fuoco dentro e quanto invece di persone che guardano al fumetto come a una carriera come un’altra?

Per fare carriera nel fumetto devi avere la vocazione del monaco. Non è come fare carriera in altri campi, si guadagna poco. Non so quanto siano motivati quelli che mi mandano i lavori, so che mi scrivono in moltissimi, cerco di rispondere a tutti. È molto impegnativo e a volte mi cadono le braccia perché mancano i fondamentali, se non si sa disegnare il corpo umano come puoi pensare di fare fumetti?

Cosa ti porta a pensare “Devo assolutamente disegnare e raccontare questo”?

Nel lavoro di un autore il processo è nella maggior parte del tutto inconscio. Si svolge in una sorta di camera oscura psichica. Nel mio caso è come “essere agiti”, il fumetto è il vampiro che guida la mia vita. E in fin dei conti non sono io che decido. Possiedo decine di block notes, con appunti, abbozzi di dialoghi, materiale grezzo che poi diventerà storie, libri ecc ecc. In questi giorni ho ripreso una storia iniziata venti anni fa.

Ci sono momenti di maturazione in cui una cosa germoglia e dici ok, devo fare questa.

È come seminare e poi curare la crescita di qualcosa. Un rito che utilizza il tempo, un po’ come i contadini che assecondano le stagioni.

La cosa si complica (o arricchisce, a seconda dei punti di vista), se pensi che non scrivo e disegno fumetti solamente. Mi hanno sempre interessato anche altri strumenti di espressione. Stamattina stavo suonando, componendo partiture per archi, incidendo. Scrivo sceneggiature per me e per altri. Dirigo Linus, faccio riunioni di editing con gli autori di Oblomov… È un unico magma che si muove di continuo e che mi spinge da una parte o dall’altra.

Le storie hanno bisogno di tempo per maturare, c’è una zona d’attesa, e questo sempre, che sia una canzone, una sceneggiatura per il cinema, un romanzo o un fumetto. In questi momenti, anziché andare a pescare prendo un altro block notes e vado avanti su altro, su diversi livelli e binari contemporaneamente. Il mio metodo di lavoro è questo. Poi mi alzo presto tutte le mattine e studio. Ci sono pile di libri da leggere, esaminare, sottolineare.

Il fumetto adulto, complesso e stratificato da una parte, il fumetto di intrattenimento, d’evasione dall’altra che non è l’opposizione fra i mattoni e le storielle.

Non credo che sia così. Tin Tin è un fumetto d’evasione bellissimo da cui ho imparato moltissimo. Mi piace molto il cinema di Hong Kong che è un cinema d’azione, come mi piace Ozu che è un cinema contemplativo completamente diverso. Sarebbe come dire che se ti piacciono gli Stones non ti può piacere Bach. Per me il fumetto deve avere una sua ricchezza, che non vuol dire complessità nel senso di complicazione.

Non vuol dire pesantezza.

Sì. Magnus, persona che ho amato molto, amico e maestro, diceva che aveva bisogno di immergersi nell’abbraccio dei lettori da edicola, quelli “meno blasonati” se vogliamo, e di cui io stesso faccio parte, perché fin da bambino l’edicola è stata una specie di tempio, di museo dell’immaginazione. Un autore come Hugo Pratt è d’evasione o impegnato? Per me entrambe le cose. Non mi pongo dei limiti.

Una volta ero in vacanza con Jean-Louis Floch, prese un fumetto western di Enrique Breccia dalla mia libreria. Quel libro era disegnato con uno sforzo minimo. Ricordo la sua ammirazione, Jean-Louis è un uomo pigro, ammirava tutti gli escamotage di Breccia figlio per fare il minimo sforzo possibile.

Era un fumetto disegnato molto bene perché Enrique Breccia è un grandissimo disegnatore, ma era anche molto misurato.

Ecco io, se dovessi dire, non mi pongo il problema delle gerarchie.

Una volta parlando con Giancarlo Politi, il fondatore di Flash Art, gli chiesi “secondo te nel Novecento è stato più influente Walt Disney o Picasso?” Non è che perché Picasso è nei musei è cultura e invece Disney, che sta nelle sale cinematografiche e nei negozi di giocattoli, è spazzatura. Ho avuto la fortuna di frequentare le lezioni di Eco e Calabrese, non posso pensare nei termini di alto e basso della cultura.

È una riflessione che faccio riguardo i supplementi culturali dei quotidiani, dove tre quarti delle pagine sono dedicati ai libri, e tutto il resto è condensato in una manciata di pagine. Come se la cultura passasse soprattutto o esclusivamente dai libri. Se penso a mia figlia, che pure legge molto, credo che lei trovi più “influenti” le serie tv di piattaforme come Netflix, spesso di grande qualità. Trovo che sia una battaglia di retroguardia questo concentrarsi quasi esclusivamente sui libri mentre passa tantissimo altro attraverso altri media.

A Troiano, il direttore di quel bellissimo supplemento che è La lettura, dissi “stai attento perché vi state perdendo il pop”. Se un supplemento trascura quel tipo di cultura secondo me fa un grosso errore. Una cultura che passa appunto anche per le serie tv.

Sempre in Storyteller scrivi «Per me la verità è molto più profonda e non ha nulla a che vedere con una ricostruzione filologica degli atti, ma con un senso dell’esistere».

È qualcosa di complicato. Che riguarda per esempio il reportage disegnato. Il rapporto tra il disegno, che è uno strumento “astratto”, a differenza forse della fotografia che riteniamo più “oggettiva”.

Ricordo quando disegnavo i Quaderni ucraini, ero in Ucraina per intervistare Nikolay Vasilievich. Aveva mandato via me e l’interprete per tre volte. La quarta volta accettò di parlare, di raccontarsi.

Era un racconto difficile, il suo, e durante l’intervista sulla quale avrei costruito una parte del libro, scoppiò a piangere, in mezzo al viavai distratto della gente del mercato. Rimasi atterrito, tremavo, avevo preparato domande a cui era impossibile rispondere per monosillabi, con sì o no, sperando che il racconto fluisse. Così fu. Mi allontanai per lasciare che lui parlasse con l’interprete, volevo che la conversazione fosse tra due persone della stessa lingua per evitare che in qualche modo lui potesse sentirsi giudicato da me, un occidentale.

E dopo, quando nel silenzio del mio studio provai a riportare l’intervista su carta, mi resi conto che anche se rispettavo fedelmente le sue parole, non sentivo la stessa intensità. Dove sbagliavo? Chiesi all’interprete di ritradurre completamente l’intervista, ma nulla, la trascrizione era stata fedelissima.

Capii, che il “realismo” non c’entra nulla, l’essere fedeli per filo e per segno, quando traduci su carta. Pensare che essere “realistici” sia cercare di riprodurre stilisticamente una realtà oggettiva è pura illusione. Peggio, falsificazione. Devi riuscire a trovare qualcosa per restituire la storia su un altro mezzo, la carta di un libro. Devi saper usare il tuo attrezzo di lavoro, che è il raccontare con i disegni.

Ho visto molti altri libri di reportage disegnato, ci sono anche case editrici specializzate, e spesso li ho trovati scadenti perché come quando fai un ritratto e ti preoccupi solamente del lato esteriore, non cogli lo sguardo di sguincio, l’espressione asimmetrica, le rughe che si formano accanto alle labbra o un occhio più chiuso dell’altro come in Thom Yorke, cose che raccontano moltissimo e che devi saper coglierle. Uno che sa disegnare non è qualcuno che sa fare delle forme e dei segni sul foglio, è uno che sa vedere. Quando ho fatto la mostra alla Triennale di Milano (Pagine nomadi nel 2012, Ndr) è venuto Tullio Pericoli e abbiamo passato 40 minuti a parlare di nasi e di come si compone un disegno, un ritratto; le nostre conversazioni sono sempre così. Pericoli per me è uno dei grandissimi ed è un fine osservatore, uno che sa vedere l’animo di chi raffigura. Nei suoi disegni non solo vedo Dostoevskij o Philip Roth ma vedo anche lo sguardo di Pericoli. Lo stesso posso dire di Robert Crumb. Nel suo film (Crumb, del 1994 diretto da Terry Zwigoff, Ndr) insegna a guardare una fotografia per copiarla e dice: “osserva dei dettagli, amplificali leggermente”, lì c’è tutto, lì c’è l’essere autore. Un autore è colui che ha un osservatorio sul mondo. Leggo Vonnegut perché voglio sapere come lui vede il mondo.

Questo, penso, non è chiaro per tutti. A me interessa questo rapporto che non è solamente quello dell’esteriorità. In questo momento invece la maggior parte degli autori si pone prevalentemente un problema di volumetria, ritiene che fare un fumetto sia la ginnastica per rendere la tridimensionalità e il peso di un corpo sul foglio.

Il che manda le riflessioni meravigliose o lo stesso operato, che so, di uno come Saul Steinberg, in un altro campo da gioco.

Cosa è disegnare? Rappresentare? Se pensiamo che fare fumetto sia trovare forme più o meno credibili da un punto di vista esteriore stiamo annaspando. Stiamo perdendo il senso profondo del racconto, la magia che crei con il lettore, che non ha a che vedere con la suggestione volumetrica, tranne che in rari casi in cui l’autore la usa con grande consapevolezza. Penso a Richard Corben o al Tanaka di Gon, disegnatori di grande esperienza che usano la tridimensionalità per ottenere una suggestione che non è mai fine a sé stessa.

Come autore, come artista, cosa cambia fra il lavorare in solitudine al tavolo da disegno e il dirigere la troupe di un film. Cose che tu hai fatto per le due versioni di “5 è il numero perfetto”. Il lavoro di gruppo lo fa sentire meno tuo?

In un certo senso anche il fumetto è un lavoro collettivo. Orsola Mattioli, la mia editor da 15 anni in Italia, legge tutto quello che faccio. Il mio stampatore, Claudio Frontini, è essenziale per la riuscita di un libro.

Perché dovrei sentirlo meno mio, il film? Nel bene e nel male è completamente mio anche se l’ho realizzato con altri grandi talenti.

Il film mi fa pensare a quando fai un disco e coinvolgi musicisti a cui chiedi di fare i suoni in un modo invece che in un altro. Ti avvali della collaborazione di altre persone il cui lavoro è tutto teso verso quel progetto di cui tu sei quello che ha la visione. Si impara molto dagli altri. Sono una persona curiosa, ascolto, mi confronto. Magari giriamo la scena come l’avevo immaginata io e come la propone il direttore della fotografia o l’aiuto regista e poi in montaggio scelgo quello che mi sembra funzioni meglio.

Qual è stato il lavoro più faticoso, emotivamente, fra quelli che hai realizzato sino ad oggi?

Il film è stato sicuramente l’esperienza più complicata perché c’erano centodieci, centoventi persone coinvolte, un esercito, una grande orchestra. Ma ogni cosa ha le proprie difficoltà. Ricordo quanto stress comportava quando registrare un disco costava molti soldi, e sapevi di aver speso l’equivalente di duemila euro solo per lo studio, ogni giorno.

Adesso sto mettendo su uno studio di registrazione, per essere libero di fare le cose con i tempi miei, senza quello stress. Il che, naturalmente influisce anche sul risultato.

Il fumetto ha “il privilegio della miseria”, non costa niente, se non la carta, una penna e il tuo talento.

Questo significa, per esempio, che puoi decidere di trasferirti in un luogo con i tuoi block notes e se serve ci stai perfino un anno o due. La qual cosa sarebbe impensabile se dovessi raccontare con il cinema, che fa i conti con costi di produzione, diaria, assicurazione... Tutte voci che incidono fortemente. Potere spendere del tempo è un lusso, che il fumetto concede. Il cinema molto meno. È il motivo per cui non volevo fare la regia, sono uno che si ferma, aspetta, riflette, non si accontenta della prima idea.

Chi avevi immaginato come regista del film?

Dal 2004, quando abbiamo cominciato a pensarci, sono stati tanti i registi presi in considerazione. Anche Johnny To, che gira come io disegno. Non avevo suoi film, Marco Muller mi ha fatto scoprire la sua sensibilità sulle geometrie, le simmetrie e le architetture visive, molto affine alla mia.

Facciamo un excursus delle riviste che hai fondato o a cui hai partecipato? Qual è il filo rosso che le lega?

Sono cresciuto con le riviste italiane, Alter Linus in particolare e poi Cannibale. In quegli anni mi appassionai molto a Métal Hurlant, la versione rivoluzionaria e proto-punk del fumetto. Poi À suivre, di cui mi colpì l’idea di raccontare storie a lungo respiro, quello che ho sempre voluto fare. Quindi quando fondai con alcuni amici il Pinguino Guadalupa, una busta con quattro piccoli albi d’autore, quattro mondi, quattro universi, era già una riflessione su cos’è il veicolo fumetto. Una riflessione che mi sono portato dietro per tutta la vita, anche quando ho fondato la Coconino Press ho detto: “non facciamo libri patinati, con la copertina cartonata, ma libri caldi, con carta uso mano avoriata” perché mi interessava l’idea che la carta ingiallita suggerisce, mi piaceva l’idea che i libri sembrassero già vecchi, che il tempo ci fosse passato sopra. L’idea che quell’oggetto fosse in un certo senso un oggetto d’affezione.

Tornando al Pinguino Guadalupa, già dal secondo numero pensammo di fare storie molto lunghe, era qualcosa che ho sempre sentito mio.

Poi partecipai al numero zero di Nemo, una rivista mai nata della cooperativa Storiestrisce, e poi, sempre nel 1980, con Mattotti e Carpinteri pubblicammo uno speciale che si chiamava Pinguino Studios. Diviso in tre parti in cui ognuno rifletteva sul proprio mondo, il proprio approccio al linguaggio. Cinque anni dopo volevo fare una rivista di grande formato per riportare il fumetto alla dimensione delle origini, tavole in cui immergersi. Dolce Vita fondeva fumetti, reportage e testi di Tondelli e altri grandi scrittori come Garcia Marquez, senza esclusione di generi, dal supereroe russo a esplorazioni interiori a visioni satiriche della società americana. Dopo, con Leila Marzocchi, Otto Gabos e Ottavio Gibertini fondammo Fuego, una rivista-universo in cui unire riflessioni sulla maschera — quella del supereroe ma anche quella del lottatore di catch (lucha libre), del sadomaso — e sulla figura dell’eroe. Poi c’è stata Black, più che una rivista un’antologia internazionale di fumetti, di storie brevi perché mi interessava il fatto che mentre si sviluppavano narrazioni di lungo respiro ci fosse anche la possibilità di fare storie di sei, quindici, venti pagine.

Infine è venuta la direzione di Linus e Oblomov.

C’è ancora tanta differenza come un tempo fra fare fumetto in Italia e farlo in paesi come la Francia, il Giappone e gli Stati Uniti?

Sì, c’è una grande differenza. In questi Paesi che citi il mercato è molto più esteso, il che consente altre tirature, altri compensi ecc ecc. Un autore che vive di sole royalties deve avere un seguito reale.

Credo di aver capito che esistono due fasi nella vita di un artista, quella dell’espressione, quando cerca la propria voce, e quella della comunicazione in cui questa voce parla e comunica con il pubblico, che può amarla, questa voce, capirla, oppure, capita anche questo, rifiutarla.

Da lì deriva la sorte dell’artista.

Come editore ho pubblicato più di mille titoli negli ultimi venti anni e ho visto cose che mi lasciavano a bocca aperta, libri meravigliosi che non piacevano per niente e libri belli, ma non eccezionali, amatissimi.

Questo non ha niente a che vedere con la qualità intrinseca del lavoro, è un fattore quasi magico e sotterraneo per cui certi autori godono di un bonus di affetto e altri no, anche se sono bravissimi.

Creare e avere un seguito è una parte molto importante del lavoro. Io non faccio fumetti per me stesso, faccio fumetti che mi piacciono ma che spero siano amati da tutti quelli come me. Quando sento, vedo o leggo una cosa bella, ne parlo con i miei amici. E loro lo fanno con me, questo è essere parte di una comunità estetica, artistica, di amici che condividono la passione per certe cose.

Il concetto di mainstream o di cultura alternativa hanno ancora senso?

No, perché secondo me in questo momento non c’è la controcultura. E forse non c’è l’underground perché prima c’era il mainstream, cioè le grosse catene di distribuzione, mentre adesso questo potere le grosse catene non ce l’hanno più.

Poi, certo, c’è una crisi drammatica della critica perché non ha più la funzione che aveva un tempo. Sia nel cinema che nella musica e nel fumetto.

Oggi c’è troppa informazione, mentre in altre epoche ce n’era penuria.

Da giovane ho scoperto dei dischi perché leggevo delle riviste che dicevano che quei dischi erano importanti, parlavano con l’artista e recensivano i dischi.

Adesso se io sento parlare di The sheep, l’ultimo disco di Brian Eno, vado su Spotify e lo ascolto direttamente, non ho bisogno di leggere la recensione per sapere come la penso.

In questo momento esiste una dimensione di approccio diretto con la cultura che fa sì che se tu sei un blogger e pubblichi le tue strisce senza avere un editore, poi diventi Zerocalcare. Non hai bisogno della potenza di un editore per nascere, crescere e avere un seguito. Mentre prima sì, avevi bisogno di qualcuno che ti pubblicasse e ti distribuisse, perché quando in America c’era la controcultura, questa era underground, vale a dire distribuita nei luoghi dove smerciavano le droghe leggere e i giornalini a cinquanta centesimi. Il mainstream era Spiderman che tirava due milioni e mezzo di copie. Adesso non c’è più quella grande differenza, passi da una rivista ad un blog a un quotidiano di grande tiratura. La rete e i social fanno una grande differenza, è come avere un ufficio stampa personale.

La critica non dovrebbe essere ancora più importante adesso, dando gli strumenti per selezionare al meglio?

Per me la cosa più semplice è: mi interessa capire come scrive Han Shaogong? Lo apro e lo leggo. Il punto è se hai gli strumenti per capirlo, se non li hai uno può dirti “scrive bene, scrive in maniera barocca” ma tu non avverti se è vero o no.

Se li hai, vedi che non scrive in maniera barocca, guardi la quantità di aggettivi, la costruzione della frase… Se mi dici guarda Shtisel o una serie qualunque, non vado a cercarmi le critiche o cosa dice Rotten Tomatoes, la metto su e capisco se mi piace o non mi piace. Se tutti dicono che Black Mirror è bellissima ma tu la guardi e ti sembra una banalità, allora può capitare che mi metta a leggere per capire se non ho visto delle cose oppure ti chiamo e ti chiedo perché ti piace. Mentre ai tempi di Taxi driver o Mean streets o 2001: Odissea nello spazio avevi una sola possibilità, andare al cinema perché non c’erano neppure le videocassette. La critica ti diceva se valeva la pena di spendere le seimila lire del biglietto. Adesso ti basta cercare lo streaming, ti viene fuori e lo guardi. Se hai fame non chiedi a me di mangiare un panino e dirti se è buono o meno.

Quindi secondo te la controcultura è solo una questione di visibilità.

La controcultura si contrapponeva a quella che allora era la muzak, il ciarpame, con la music, la vera musica: i Velvet underground, il Progressive, eccetera. Oggi se vai su Bandcamp hai grandi quantità di musica indipendente, anche i Radiohead sono su Bandcamp. Non hai bisogno di essere su Spotify. La macro-economia di Amazon consente la vita di micro-economie. Se volessi pubblicare solo i miei libri e autoprodurmeli, probabilmente riuscirei a viverci, perché con la rete posso raggiungere chi è interessato, quelli che mi leggono, che comprerebbero online. Oggi ci sono possibilità che non esistevano. Quando facemmo il Pinguino Guadalupa nel 1978 e 1979, io Baldazzini, Fara, Brolli e altri nostri amici, non avevamo una lira ma raccogliemmo i soldi per comprarci una macchina da stampa vera, offset. Adesso non hai bisogno di tutto questo. Qui nel mio studio ho un banco musicale con macchine per registrare come si faceva negli studi che costavano migliaia di euro al giorno. Mi arrivano libri stampati in digitale e sono perfetti. È una rivoluzione che consente l’espressione e la maturazione di un artista a costi molto limitati.

Si ripeterà mai la formazione di gruppi di autori come quello di Cannibale e Frigidaire o del vostro, di Valvoline?

La formazione del gruppo di Valvoline o Frigidaire nasce dallo scambio di idee continuo e molto prolifico. Quando avevo 19 anni andavo in via Clavature. Al secondo piano c’era la casa occupata da Scòzzari, parlavo con lui tutto il tempo, andavamo a mangiare in una specie di bettola lì sotto, dove lui mangiava i suoi piselli in umido, e parlavamo tutto il tempo di fumetto, di cosa fare. C’era uno scambio culturale, è quello che genera la nascita di un gruppo. Poi ci vuole almeno una persona che faccia da collante. Io lo ero in Valvoline, in Cannibale e Frigidaire era Stefano Tamburini. Dopo Sparagna. Nel 1980, ai tempi del primo numero, io ero fisso allo stand di Frigidaire a parlare con Stefano. I giovani autori so che si vedono, si incontrano, ma non so quanto dibattano sul senso di quello che si sta facendo. Non vedo gruppi.

Non bisogna essere simili. Io, Jori, Carpinteri, Brolli e Mattotti non lo eravamo. Ognuno aveva il proprio stile però c’era un dibattito comune, letterario, si ragionava di cosa fare.

I tre incontri che hanno segnato in maniera più profonda la tua formazione culturale.

La figura di mio padre è stata sicuramente importante. Era una persona aperta e profonda da un punto di vista culturale, era un compositore. Vederlo sconvolto dalla musica per me è stata una iniziazione. Ho capito che l’arte, in generale, ti cambia la vita. Un compagno di strada è stato sicuramente Battiato, lo ascoltavo a quattordici anni e lo ascolto tutt’ora. Lo conobbi quando avevo diciassette anni e cominciai a parlarci, in seguito, negli anni lo avrei rincontrato, è capitato anche di lavorare insieme. Battiato ha rappresentato l’apertura verso un mondo: era qualcuno che concepiva “il fare” privo di pregiudizi, e familiarizzava con cose di qualsiasi tipo. Il danzare con la vita, se l’ho imparato, l’ho imparato da lui.

Un’altra figura importantissima, come uno zio di casa, è Čechov con i suoi bellissimi racconti e le sue lettere, il modo di guardare strambo, astratto, apparentemente senza capo né coda, ambient. Brian Eno ovviamente, uno sperimentatore con un modo di lavorare molto vicino al mio e che deriva da La Monte Young, Eric Satie, John Cage. Sperimentatori che come i Dadaisti praticano la casualità. Anche David Lynch fa parte di questa grande famiglia, uno che dice la storia sono tante stanze di racconto messe in fila, una dietro l’altra come un trenino.

Che rapporto hai con le tavole originali? Ci penso quando vedo pubblicazioni fatte con riproduzioni di riproduzioni. Si sa che molte tavole di lavori anche molto noti (Pazienza o Ranxerox, per esempio) sono andate disperse o sono scolorite. Se ricordo bene tu conservi le tue.

La tecnologia è effimera, la carta dura millenni, un supporto digitale un decennio se va bene. Il CD con le scansioni con cui ho realizzato il libro Sinatra non è più leggibile, per cui dovrò rifarle. C’è una certa caducità, per cui tendo a conservare tutte le tavole dei miei quasi 45 anni di carriera. Poi le ottiche con cui si può scansionare oggi sono notevolmente migliorate.

Nel lavoro ho un rapporto con le cose realizzate non “statico”, intendo che riguardo le vecchie storie e magari ci torno su, rileggo gli appunti, colgo aspetti nuovi, forse buone idee che in quel momento non ho sfruttato. E dunque “riapro i cantieri”, per così dire. Sono uno che ritorna sul lavoro. Dopo trent’anni sono tornato su una storia dell’era Valvoline, del 1982: Sinfonia a Bombay. Era una spina nel fianco, fu scritta mese dopo mese, in corsa, per la pubblicazione su rivista. La stampa in rotativa aveva fatto il resto, diciamo che la resa grafica era piuttosto distante dal lavoro originale. Per cui, da lustri, mi ripromettevo di farne un libro curato come si deve. E il trentennale di Valvoline è stata l’occasione giusta. Le tavole e quelle atmosfere sono tornate sul mio piano da lavoro. Ho riscritto il testo, restaurato i disegni, facendone una versione a colori. Dato respiro a certi montaggi. Così dopo trent’anni è diventato il libro che sognavo di avere. Sapevo che avrebbe venduto meno dei Quaderni giapponesi, ma non era importante, non si fanno le cose solo per vendere, ma per un percorso. E quel libro era un capitolo importante per la mia storia di autore. Mi piacerebbe scrivere e disegnare dei fumetti a lungo respiro in cui tutti i personaggi secondari che ho creato in tanti anni riprendano vita, diventino protagonisti di altre storie.

Degli spin off.

Sì, per collegare tutto questo mondo in cui, per me, questi personaggi esistono. So quando sono nati, di quale segno zodiacale sono, faccio le schede di tutta la loro esistenza. Come ti dicevo sto lavorando su una storia cominciata venti anni fa. È un lavoro di ciclicità, riconsiderazione. Poi penso di essere abbastanza disciplinato.

Che peso hanno le recensioni e i commenti di chi ti segue online, li prendi in considerazione?

Mi incuriosiscono. Sono molto fortunato, ricevo molte lettere di affetto e di gratitudine. Che sono quelle che io stesso scrivevo e scrivo agli autori che ammiro. Vedo lì, nella tua libreria, i due volumoni di Muñoz e Sampayo, loro cambiarono la mia vita. Leggendo una loro storia, quella di Moses Man, decisi che dovevo fare questo. Lasciai l’università per disegnare giorno e notte. Succede quando il tuo lavoro entra nella vita delle persone. Poi ci sono quelli a cui non vai a genio ma, davvero, non sono così fragile da cadere a pezzi se qualcuno mi dice che non gli piace qualcosa che ho fatto. Vivo lo stesso.

Lo scrivevo alla mia amica scrittrice Grazia Verasani, ma davvero siamo così fragili che abbiamo bisogno del like per ogni cosa che facciamo?

 

(...)

L'articolo integrale è pubblicato nel n. 2 di Awand, inverno 2021-2022.
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Antonio Ant Cornacchia
Antonio Ant Cornacchia
Grafico, art director, giornalista. Ha studiato all'Accademia delle Belle Arti. È il fondatore e direttore di Awand. C'è chi lo chiama Ant, che sta per formica.

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