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ANIMAZIONE. Nei suoi film la memoria di un mondo contadino povero e duro ma semplice e trasparente. «Faccio cinema d’animazione a mano, con pochi mezzi, senza concessioni, senza amicizie e senza paracadute, è un atto di resistenza, con la minuscola». «Nella ricchezza della diversità ci deve essere qualcosa, in noi, che invece ci deve rendere uguali e valere sempre: il rispetto, la lealtà, la generosità, l’impegno, l’umiltà, l’accettazione della sconfitta.»

simone massi

 

 

Simone Massi è uno degli animatori italiani più apprezzati e premiati nel mondo. Intrecciando memoria individuale e collettiva, ha definito negli anni uno stile personale e un approccio poetico al cinema di animazione. Dopo una lunga e fortunata produzione di cortometraggi, ha presentato nel 2023 alla Mostra del Cinema di Venezia il suo primo lungometraggio Invelle.  Vive lontano dai riflettori nella sua Pergola, nelle Marche, custodendo le parole e i racconti di una civiltà antica, travolta dalla Storia.

AC Perché è il disegno il tuo linguaggio? Come e quando nasce questa scelta?

Non lo so. Non m’incuriosisce e di conseguenza non mi piace indagare quello che, in un modo o nell’altro, mi sono ritrovato a fare. Disegno da quando ero bambino, come tutti. La differenza è che nel diventare grandi tutti gli altri smettevano, mentre io non ne volevo sapere. Il disegno come un gioco d’infanzia, poniamo, e a me va benissimo.

AC Quanto è stato importante frequentare la Scuola di Urbino?

Più che importante, è stato fondamentale. Fino al 1993 tutti i miei quaderni erano pieni di caricature, ritratti, fumetti e satira politica. Non sapevo niente del cinema d’animazione. Ma proprio niente. A Urbino mi si apre un mondo, un mondo che permette di superare la staticità dell’immagine e di lavorare con musica e suoni, l’altra mia grande passione. Messo di fronte alla possibilità di scegliere non ho avuto nemmeno mezzo dubbio (su quale strada scegliere).

SL Nelle tue animazioni il bianco e nero è nettamente predominante sulle poche, significative, campiture di colore. Qualcuno ha detto che il bianco e nero è il colore del cinema. Da dove viene questa scelta?

Di nuovo: non lo so. Posso dirti però che ho sempre disegnato così, anche da bambino. Con pochissime eccezioni (i disegni “comandati” dalle maestre, all’asilo e a scuola). Ho provato a fare qualche esperienza di colore negli anni di Urbino ma non c’è stato niente da fare: non mi ci trovo, non mi piace. Qualcuno ha detto che potrebbe essere dovuto all’epoca in cui sono cresciuto, epoca in cui le immagini che arrivavano erano poche e in bianco e nero. Potrebbe essere. Nel 1985 mio padre, raccontò con enfasi di un giovane tennista tedesco, diceva che era tutto rosso e di quel colore aveva perfino le sopracciglia. Qualche giorno dopo andai a verificare a casa di un ragazzino che aveva la televisione a colori, accese sulla partita e mi colpirono profondamente i primi piani di Boris Becker, mi fece una profonda impressione anche il campo di gioco. Non dissi una parola, era come vedere i colori per la prima volta.

 

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AC Come si è formato il tuo gusto e la tua poetica? Quali sono state le tue visioni, le tue letture i tuoi ascolti da ragazzo e come sono cambiate nel tempo?

Si è formato un po’ alla volta e anche grazie ai miei familiari. Mio padre leggeva i fumetti, Il Monello, Intrepido, e soprattutto Tex. A mia madre piacevano gli sceneggiati, La freccia nera e Michele Strogoff ma guardava anche Heidi, Goldrake e Remi. E fin qui tutto normale, per un bambino degli anni ‘70. A scombinare le cose è stato mio fratello maggiore che a 15 anni, con la prima paga d’operaio, portò a casa un disco dei Depeche Mode. Subito dopo gli Smiths e i Violent Femmes. Di lì un percorso che mi porta a conoscere e ad appassionarmi al rock alternativo: Redskins, Nick Cave, Jesus and Mary Chain, Spacemen 3, Screaming Trees, Dinosaur jr, Thin White Rope, Men they couldn’t Hang, Pixies, Ride... Ascoltavo Radio Punto, scrivevo su un quaderno nomi, brani e stelle di valutazione. Ero informatissimo, conoscevo componenti delle band e discografie, leggevo tutte le recensioni delle riviste specializzate e macinavo chilometri per comprare dischi e vedere concerti. È stata una passione perfino superiore a quella del disegno. Dal rock al cinema e alla letteratura il passo fu breve e naturale. Perché il Mucchio Selvaggio e Rockerilla parlavano anche di Alan Parker e Oliver Stone, di Salman Rushdie e Ian Mc Ewan. Fellini, Wenders, i fratelli Coen, Tarkvoskij, Angelopoulos, Pavese, Calvino, Dolci, Revelli, Garcia Lorca: tutto il resto venne da sé, come logica conseguenza. Mi sono imbevuto talmente tanto e così a lungo di musica, cinema e letteratura da non volerne più. Oggi guardo, ascolto e leggo pochissimo. E quando succede, gira e rigira mi ritrovo sempre addosso agli stessi autori. Un po’ come tornare in chiesa, per usare le parole del mio maestro, Stefano Franceschetti.

SL Il tuo è cinema in larga parte fa a meno della parola, per caricare di un significato maggiore, anche nascosto, le immagini. Ti senti più vicino ad un pittore che ad uno scrittore in questo tipo di approccio?

Sì e no. Ho una formazione da disegnatore, è innegabile. Al punto che alla base dei film ci sono immagini fisse e una ricerca attenta dell’inquadratura e della composizione. Ma una volta stabiliti i punti di arrivo e partenza (i fotogrammi chiave) tutto il percorso che segue è più vicino alla scrittura. O forse, meglio ancora, all’oralità. Mi pare che una volta partito il mio lavoro lasci l’immagine per avvicinarsi al racconto orale, in particolare quello che si srotola e tiene tutto insieme, senza concedere tregua e respiro. Filastrocche animate o giù di lì, ma poi che ne so. Ci sarà di sicuro qualcuno che saprà vederci più chiaro e spiegarlo meglio.

AC In Animata resistenza, un film di Francesco Montagner e Alberto Girotto del 2014 a te dedicato, appare evidente l’importanza della manualità e della matericità del e nel tuo metodo di lavoro. È una eredità di quel perduto mondo contadino a cui spesso fai riferimento?

Sono cresciuto in un’epoca in cui tutti, bambini e grandi, adoperavano le mani. In tutti i sensi e per tutte le cose da fare e disfare. Le mani aperte per accarezzare il capo dei bambini, per sculacciargli le chiappe. Le mani strette intorno al corpo dell’animale, le mani serrate sulle lame che lo fanno a pezzi. Le mani intere a sporcarsi, gonfiarsi, lacerarsi, storcersi e deformarsi. Le mani aperte e le mani che ci infilzano l’ago per togliere la scheggia. Sono cresciuto in questo modo, ho imparato ad usare le mani intere, non le prime due dita.

AC Onestà, umanità, pazienza, umiltà, modestia, valori che — come tu dici in quel film — sono andati perduti insieme alla civiltà contadina. È una perdita irrecuperabile?

A parlare non sono bravo, mi ritrovo spesso a dire cose che potevano essere taciute o dette meglio. Ho visto “Animata resistenza” una volta sola, a Venezia, e per tutto il tempo della proiezione non ho fatto altro che mandarmi a quel paese, a pensare “Ma sta’ zitto! Ma lascia andare!”. Pazienza, quel che è fatto è fatto. Non so se davvero è andata così, come ho detto dieci anni e mezzo fa, e ad ogni modo mi dispiace averlo detto. Oggi, per rispondere alla tua domanda, provo a dire che molto è andato perduto e qualcosa rimane e qualcos’altro si può senz’altro recuperare. In questo senso abitare in un borgo o in un piccolo centro sicuramente aiuta.

 

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SL La tua tecnica di disegno prevede l’utilizzo di piccoli strumenti di incisione su una base di pastello ad olio. È quindi una tecnica che lavora per sottrazione, per scarto. Pensi che in qualche modo questo tuo modo di disegnare, “eliminando il superfluo”,  sia una metafora del processo creativo alla base del tuo lavoro?

Potrebbe essere, perché no. A me piace disegnare in questa maniera perché mi riporta in primo luogo all’infanzia, quando si scavava per terra, per cercare o scoprire, vedere cosa c’è sotto, dentro, giù. Da bambino poteva uscir fuori un verme, un sasso, un giocattolo rotto ed era comunque un’emozione, valeva la pena sporcarsi le mani.

SL Invelle, il tuo ultimo film, come la nostra rivista, ha un nome che viene dal dialetto.  Hai anche scritto un Abbecedario del dialetto pergolese. Qual è il tuo rapporto con la lingua dialettale? Perché la ritieni importante? La parli, ne raccogli testimonianze?

Quando sono andato a studiare a Urbino ho imparato la vita e le opere dei pittori e dei poeti e ho preso a parlare in italiano. Per la prima volta mi pareva di essere “ricco”, bello, intelligente. Al termine degli studi sono tornato a Pergola e mi mancavano Urbino, il confronto, la possibilità di crescere. Ero quasi irritato dalle persone che avevo intorno. Non ci avevo capito niente. Col tempo ho realizzato e fatto il percorso contrario, avvicinandomi sempre di più ai contadini, agli operai, agli anziani, agli illetterati. Ho sceso quel mezzo scalino su cui ero salito, riprendendo pieno possesso di quello che ero sempre stato: la terra, le radici, la cultura, la lingua. Il dialetto è parte di quel mondo che mi ha cresciuto, insegnato e sfamato e che adesso scompare. E forse è proprio per questo, perché è arrivato alla fine, che non posso non ascoltarlo, abbracciarlo, accudirlo, essergli grato.

AC Il tuo lavoro è apprezzato un po’ ovunque nel mondo e allo stesso tempo ha un forte legame con la tua terra d’origine. È un paradosso o è del tutto naturale?

Potrebbe essere naturale perché i contadini, come sostiene Goffredo Fofi, si assomigliano tutti.

 

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SL Il sentimento della memoria, personale e collettiva, è il filo conduttore della tua opera. Perché ti senti così legato al tuo passato e cosa pensi possa insegnare alle nuove generazioni?

Ecco, più che nella questione precedente, il vero paradosso lo trovo qui. Ho la consapevolezza di godere di una libertà mai avuta prima da quelli della mia razza, ed è inebriante. Sono l’uomo più libero del pianeta perché sono fortissimamente legato a -e con- chi mi ha preceduto. Sono me stesso e anche la prosecuzione dei loro passi, dei loro gesti e delle parole. Cosa porto di nuovo, in questo mondo, rispetto ai miei nonni? Il disegno, la possibilità di raccontare storie che arrivano in ogni parte del mondo. Il disegno è mio, perciò il nostro; le storie sono le loro, dunque le mie.

AC Ti senti a tuo agio in questo momento storico e in questo Paese?

Vivo in un borgo di cinquantasei anime, gli unici cambiamenti rilevanti sono quando muore un anziano e quando nasce un bambino. Va così e c’è poco da dire e da fare. Per il resto mi sento come sempre, a mio agio nel piccolo, a disagio nel grande.

AC Ti definisci “Animatore resistente”. Cosa significa?

Fare cinema d’animazione così come lo faccio io — a mano, con pochi mezzi, senza concessioni, senza amicizie e senza paracadute — è a tutti gli effetti un atto di resistenza, con la minuscola. Oltre a questo c’è che da trent’anni, coi miei disegni in movimento, racconto la Resistenza, con la maiuscola.

AC Senti delle affinità artistiche con altri autori, non solo dell’animazione?

In passato avrei potuto fare diversi nomi ma il vivere isolato mi ha fatto perdere di vista un po’ tutto e tutti. E poi le cose cambiano, le persone cambiano. Magda Guidi invece non è cambiata, dico lei in rappresentanza di tante colleghe e colleghi che nonostante la miriade di difficoltà non ne vogliono sapere di smettere di disegnare.

SL I bambini sono spesso i protagonisti delle tue storie, i portatori dello sguardo che sembra coincidere più profondamente con il tuo. Sei anche padre di tre bambini, quindi testimone diretto della loro creatività. Che rapporto hai con loro e con il loro modo di vedere le cose?

Diventare genitore per me ha voluto dire ribaltamento del mondo e delle gerarchie. Sono innamorato perso dei bambini. Dei miei figli, Achille, Gemma e Sofia ma più in generale dei bambini. Sono figli adorabili, portano bene e felicità a tutte le persone che gli stanno vicino, primi fra tutti i miei genitori e le vicine di casa. Li guardo, li ascolto, mi presto a giochi, scherzi, racconti, invenzioni. Lavorando in casa ho il privilegio di essere sempre presente, di non essermi perso niente della loro crescita. Anzi, ho cercato di salvare, scrivendole, quello che la memoria tende col tempo a cancellare: le “parole sbagliate”, quelle che pronunciavano da piccoli e i sogni. Sono belli i sogni dei bambini. Nell’ascolto e nel dialogo mi adeguo al carattere di ognuno, cercando di far capire che nella ricchezza della diversità ci deve essere qualcosa, in noi, che invece ci deve rendere uguali e valere sempre: il rispetto, la lealtà, la generosità, l’impegno, l’umiltà, l’accettazione della sconfitta. Mi diverte tanto il fatto che tutti e tre i miei figli reputino bruttissimi i miei lavori.

SL Dopo la scuola di Urbino hai realizzato decine di film, hai anche avuto una breve esperienza nello Studio Bozzetto e per qualche anno hai organizzato Animavì a Pergola, un festival dell’animazione che hai definito “di poesia”. Qual è lo stato dell’arte del cinema di animazione in Italia?

Nel 1997 vinsi un premio al festival Cartoon Club, e il premio consisteva in una settimana di stage allo studio Bozzetto. Andai a Milano con le migliori intenzioni e scoprii che erano tutti in ferie. Passavo le giornate a sfogliare volumi, disegnare. Un giorno venne Bruno Bozzetto, gli strinsi la mano, parlammo un paio di minuti ma non ricordo di cosa, probabilmente frasi di circostanza. Per quel che riguarda Animavì è stata una esperienza straordinaria. C’è il dispiacere di non essere riusciti ad andare oltre la quarta edizione ma pazienza, non è mai semplice lavorare in gruppo. Il cinema d’animazione mi pare sia cresciuto tanto, come quantità e qualità, con risultati d’eccellenza che da sporadici sono diventati continui, costanti.

SL Il movimento che contraddistingue il tuo cinema è quello dell’andare avanti, dell’andare verso. Un fluire inarrestabile dello sguardo dentro le cose e oltre le cose, che trasmette un grande senso di libertà. Da cosa pensi dovrebbe liberarsi un artista per trovare la sua strada?

È difficile rispondere. Dipende dalla persona e dall’artista, dipende anche da quello che gli succede intorno. Posso dire che a me è stato utile liberarmi da percorsi che sembravano obbligati per chi volesse fare il mio mestiere, su tutti l’essere contemporaneo, aggiornato su quanto accade nel mondo e nel mondo dell’arte. Sulla carta sembrava tutto giusto, doveroso e perfino necessario ma non lo era per me, impegnato com’ero a cercare in tutt’altra direzione.

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 10 di Awand, inverno 2023-2024.
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Stefano Lorusso
Stefano Lorusso

Medico e cinefilo, affianca da anni al camice bianco l’amore per il cinema, considerandolo la migliore delle terapie. È stato collaboratore della riviste Nocturno e  I-filmsonline. Dal  2010 è nella redazione di Paper Street , per cui segue ogni anno la Mostra del Cinema di Venezia.  È autore di saggi pubblicati sulle raccolte Il Divo di Paolo Sorrentino – La grandezza dell’enigma (2012) e Cento registi per cui vale la pena vivere (2015), editi da Falsopiano. Ha collaborato alla creazione del portale Longtake con schede sul cinema di Spielberg, Antonioni, Rosi, Wenders. Nel 2017 fonda il circolo di cultura cinematografica “Formiche Verdi”, attivo nell’organizzazione di numerose manifestazioni e rassegne. Speaker radiofonico, cineblogger, collezionista, esplora il cinema in molte direzioni, dalla ricerca musicale a quella iconografica legata alla produzione di manifesti e locandine.

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