Dagli anni Sessanta fotografa gli invisibili. Tutto cominciò al Jamaica, a Milano, poi è entrato nelle fabbriche, negli ospedali psichiatrici, è stato in Jugoslavia, in Africa, in Cina. Ha portato ovunque il suo approccio umano e il suo spirito libertario.
Uliano Lucas. Foto di Antonio Cornacchia
«Uomo colto e visionario, Lucas lavora in quel giornalismo fatto di comuni passioni, forti amicizie e grandi slanci che negli anni ’60 e ’70 tenta di opporre una stampa d’inchiesta civile all’informazione consueta del tempo, poco attenta ad una valorizzazione della fotografia e imperniata sulle notizie di cronaca rosa e attualità politica. Collabora negli anni con testate come Il Mondo di Mario Pannunzio e poi di Arrigo Benedetti, Tempo, L’Espresso, L’Europeo, Vie nuove, La Stampa, il manifesto, Il Giorno, Rinascita, o ancora con Tempi moderni di Fabrizio Onofri, Abitare di Piera Pieroni, Se – Scienza e Esperienza di Giovanni Cesareo e con tanti giornali del sindacato e della sinistra extraparlamentare». È questo uno stralcio del profilo biografico che Tatiana Agliani ha tracciato per il sito di Uliano Lucas, decano dei fotoreporter italiani. A lui abbiamo chiesto di ripercorrere una lunga carriera ma soprattutto di riflettere su quello che è diventato questo mestiere oggi, cominciando — ovviamente — dal Bar Jamaica di Milano.
Chi era quel ragazzo che si affacciava al bar Jamaica nei primi anni Sessanta?
Ero un giovane irrequieto e con grandi speranze alla ricerca della propria strada che per un insieme di circostanze varcò la soglia di quel locale.
Qual è la prima fotografia che ricorda?
Da bambino, intorno ai dieci anni, vidi un provino da 35 mm. Erano scene di vita a Roma. Sicuramente dei sopralluoghi per qualche ripresa cinematografica. Erano di un realismo incredibile.
È stata una casualità quella di diventare fotografo?
Sì, se ci penso è stata una casualità. Avrei potuto prendere altre strade, mi interessavano molto il cinema, le arti visive e tanto altro, però alla fine ho capito che la macchina fotografica era il mezzo più congeniale alla mia persona. Anche per questo innato senso libertario che avevo e mi sono sempre portato dietro. La macchina fotografica era la libertà, mi permetteva di essere padrone del mio tempo e mi dava la possibilità di stabilire un rapporto immediato con quello che mi stava intorno. Scoprivo che la fotografia era un linguaggio per raccontare storie e per dialogare con il mondo che mi circondava. Non la fotografia per la fotografia, ma la fotografia come ragionamento continuo sull’esistere.
Che città era Milano allora?
Una città con ancora i segni della guerra, dei bombardamenti ma che faticosamente stava uscendo dal caos, con la grande speranza del miracolo economico. Una città viva, europea, una città dove c’erano le fabbriche e la lotta di classe e il mondo intellettuale era in grande fermento.
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