Il regista di Diaz, Prima che la notte e Sole cuore amore sconfessa chi dà per morto il cinema, ma «Il cineasta medio italiano è maschio, bianco, ricco e piuttosto in là con l’età. Bisogna cambiare questa fotografia per modificare un po’ l’andamento della nostra cinematografia».

 

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Daniele Vicari in un ritratto di Alfredo Falvo

 

Il rock è morto, la pittura è morta, la politica è morta... quante volte ascoltiamo e leggiamo affermazioni di questo tipo? È sufficiente che qualcuno non si riconosca nell’evoluzione del linguaggio o della prassi perché invochi l’estrema unzione per una forma d’arte o un’attività umana in realtà indifferente ai nostri giudizi. Daniele Vicari, uno dei più importanti registi italiani, ha dedicato Il cinema, l’immortale — libro pubblicato da Einaudi — a chi negli ultimi tempi ha stabilito che a tirare le cuoia sia stata, appunto, l’arte cinematografica. Del volume e di molto altro abbiamo parlato con l’autore di Diaz, uno dei rari esempi contrari in un cinema italiano contemporaneo «che ha un problema con la realtà». .

AC Come si è formato il tuo gusto visivo? è stata una formazione tutta interna al linguaggio cinematografico?

Come diceva il grandissimo pittore francese Delaunay, è l’ambiente nel quale cresci che ti forma. Io sono nato e cresciuto in montagna, per me il rapporto fisico con le cose è determinante. Ha a che fare con l’esigenza di sentire il peso specifico delle immagini, senza non capiamo la differenza tra un’immagine e l’altra. Ho incontrato il cinema molto tardi, dopo i miei studi tecnici. Fino ai venti anni non sono mai andato al cinema. Ho avuto una formazione più tarda rispetto a quella classica, quindi forse più pensata, più razionale che emotiva.

SL All’interno di questo percorso ci sono dei momenti che hanno cambiato il tuo modo di vedere il cinema?

Alla metà degli anni ‘80, quando ho visto al cinema Full Metal Jacket. Fino ad allora non avevo mai considerato il fatto che un film potesse cambiare il mio modo di vedere le cose. Quel film ha cambiato la percezione che avevo del cinema; mi ha posto una questione: come mai questa opera mi ha così sconvolto? Non era la violenza, avevo visto ben di peggio. L’ho capito quando ho scoperto che Kubrick era un grande autore e che faceva un discorso che si sposava con certi miei sentimenti: Dio non esiste e gli esseri umani sono da soli a combattere tra di loro, non hanno altre possibilità se non relazionarsi con questa lotta. Il pessimismo che c’è nei film di Kubrick incontrava la sensazione che io vivevo quando ero ragazzo.

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 6 di Awand, inverno 2022-2023.
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Stefano Lorusso
Stefano Lorusso

Medico e cinefilo, affianca da anni al camice bianco l’amore per il cinema, considerandolo la migliore delle terapie. È stato collaboratore della riviste Nocturno e  I-filmsonline. Dal  2010 è nella redazione di Paper Street , per cui segue ogni anno la Mostra del Cinema di Venezia.  È autore di saggi pubblicati sulle raccolte Il Divo di Paolo Sorrentino – La grandezza dell’enigma (2012) e Cento registi per cui vale la pena vivere (2015), editi da Falsopiano. Ha collaborato alla creazione del portale Longtake con schede sul cinema di Spielberg, Antonioni, Rosi, Wenders. Nel 2017 fonda il circolo di cultura cinematografica “Formiche Verdi”, attivo nell’organizzazione di numerose manifestazioni e rassegne. Speaker radiofonico, cineblogger, collezionista, esplora il cinema in molte direzioni, dalla ricerca musicale a quella iconografica legata alla produzione di manifesti e locandine.

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