Letteratura. Scrittore, autore, giornalista. Ha raccontato il mestiere di scrivere «Vivere di scrittura è difficile, penoso, faticoso, bisogna fare davvero molta gavetta e avere tanta determinazione». Della città in cui vive, Milano, dice «Capita continuamente d’incontrare persone speciali, interessanti, consapevoli e anche assetate di conoscenza e contatto umano, ma il problema è che tutte queste persone in gamba vivono nell’angoscia di non poter pagare l’affitto e di non sapere che ne sarà di loro fra due anni.»

Illustrazione di Alice Beniero per la copertina di L’età della tigre  (dettaglio)

 

In più di venti anni Ivan Carozzi ha attraversato numerose esperienze significative della cultura italiana contemporanea: caporedattore di Linus, autore di diversi programmi televisivi come Le invasioni barbariche e L’assedio, scrittore per podcast e freelance per numerose riviste e periodici, autore di saggi e romanzi, ha raccontato in tutto il suo lavoro fenomeni e processi degli ultimi decenni cogliendone bene la complessità. Vive a Milano, città di cui ha raccontato la graduale trasformazione, così come quella del lavoro culturale verso una crescente precarizzazione economica e mentale.

Ti sei laureato in filosofia e hai iniziato a scrivere per la tv, prima di dedicarti anche ad altri medium come le riviste, la radio e i podcast. È stato un percorso che avevi in mente o una serie di occasioni che hai cercato di cogliere?

In realtà no, non è un percorso che avevo in mente. Come per la maggioranza di quelli che un tempo s’iscrivevano a Filosofia, si trattò di una scelta fatta per amore e di una conseguenza di letture fatte al liceo, che in qualche modo, credo, si erano mescolate ai processi emotivi e caotici della crescita, agli ormoni in subbuglio, e mi avevano aperto squarci di comprensione su me stesso e sugli altri. Poi piano piano, anziché prendere la strada più naturale, quella dell’insegnamento, ho iniziato a scrivere.

Hai raccontato di aver fatto molti lavori prima di riuscire a scrivere stabilmente. È così difficile vivere di scrittura?

Ho lavorato come cameriere, come lavapiatti, ho fatto lavoretti vari di fatica durante le stagioni estive, ma pure nei mesi invernali. Così è stato per diverso tempo. Considera che vengo da una provincia della Toscana, Massa Carrara, dove la disoccupazione giovanile è storicamente fortissima. Vivere di scrittura è difficile, penoso, faticoso, bisogna fare davvero molta gavetta e avere tanta determinazione, ma se non sai fare altro e hai il tarlo, in qualche modo ti ritrovi quasi controvoglia a insistere, a perseverare, a lavorare dentro quel solco, perché non sai che cosa fare altrimenti e hai bisogno di scrivere quelle due pagine al giorno. Anche se si tratta di un ghost per un’agenzia, anche se devi scrivere la sigla per un podcast su un cioccolatino o il testo per un video che celebra la beatificazione di un missionario, ne approfitti quasi con disperazione per provare comunque a dare sfogo alla tua voce, per imprimere un segno in quello che fai e per vivere quelle due ore di meditazione e liberazione, che io, personalmente, ricavo proprio dalla scrittura.

 Sei partito dalla scrittura per la televisione, che è un processo molto redazionale e corale, come hai più volte raccontato. È stata un’esperienza positiva per te?

Lavoro tuttora per la tv, anche se non in modo continuativo. Diciamo che alla fine lo faccio per vivere. Ci sono aspetti della televisione che soffro. Negli ultimi anni ho lavorato a produzioni dove la gran parte del lavoro era svolta a distanza, ciascuno a casa propria, sentendoci mille volte al telefono, in chat o su Zoom, per poi passare insieme una settimana intera chiusi in studio a registrare. Questo fatto di lavorare a distanza e attraverso i device è molto sfibrante dal punto di vista nervoso e non è gratificante dal punto di vista umano. Manca tutta quella parte di cameratismo e di lavoro editoriale e culturale che si può avere solo dentro una redazione, vedendosi, parlandosi giorno per giorno e pranzando insieme. L’assenza di questa dimensione è un fenomeno di decadenza del lavoro con cui fatico a fare i conti. Della tv, inoltre, soffro il fatto di dovermi costringere a pensare per categorie: ci vuole questo ospite fatto così e così, perché la rete semmai non ce lo passa, perché il pubblico non capirebbe, etc. etc. Questo continuo sforzo di mediazione con categorie che non mi appartengono mi sfinisce. Certo, se avessi la forza d’impormi e cambiare le regole del gioco, probabilmente sarei un autore più bravo degli altri, cosa che evidentemente non sono. Però, quando mi fermo per qualche mese, ci sono aspetti del mestiere di cui sento grande nostalgia. Ho conosciuto tante persone valide e ho pure vissuto momenti belli, ma in generale preferirei di gran lunga essere me stesso, cioè uno che sta chiuso in casa a scrivere libri. Ma come faccio poi a campare? Vivo a Milano. Affitti impazziti, costo della vita fuori controllo, eccetera eccetera.  

 Che ruolo ha il conduttore in questo processo creativo?

Tutti i conduttori con cui ho lavorato sono di fatto anche autori; quindi, partecipano a tutto il processo creativo.

Hai lavorato con conduttori importanti come Daria Bignardi, Massimo Recalcati e adesso Gianrico Carofiglio. Com’è stato lavorare con loro?

A Daria Bignardi devo moltissimo, ho imparato davvero tanto da lei, professionalmente e umanamente. Mi ha insegnato, direi, ad avere rispetto per tutto l’arco della realtà, a dare la stessa importanza all’intervista allo scrittore colto e all’intervista al personaggio del reality o al conduttore della tv del pomeriggio, mi ha insegnato a non sottovalutare mai le persone, a leggere con scrupolo anche le uscite editoriali più effimere, a non avere pregiudizi, nella convinzione che l’intelligenza e le storie, un’intimità preziosa, i vissuti, si trovano dappertutto, perché ciascuno ha la propria ricchezza, e con la giusta leva e le giuste parole, quella ricchezza può essere portata in superficie e messa in condivisione col pubblico. Mi sembra una grande lezione di sguardo, che si può applicare tanto all’esistenza che al lavoro culturale. Se c’è una cosa che mi manca moltissimo sono proprio le lunghissime riunioni con Daria Bignardi e con tutto il vecchio gruppo di lavoro. In questi ultimi anni, anche con Gianrico Carofiglio e con tutto il gruppo di Dilemmi il rapporto è stato assolutamente positivo e amichevole. Con Massimo Recalcati si è svolto tutto un po’ più a distanza, ma le tre trasmissioni che abbiamo fatto sono state importanti, credo anche per il pubblico.

L’intrattenimento è cambiato e i prodotti televisivi sembrano aver perso centralità, grazie anche all’estrema diffusione di internet e dei suoi prodotti. Com’è cambiata la scrittura per la tv in questi anni? Il prodotto televisivo può avere ancora una sua attualità o dovrà trovare una propria nicchia?

È una domanda a cui non so rispondere, che va un po’ al di là della mia esperienza. Sicuramente, anche se sono un po’ vecchio e bollito, mi piacerebbe moltissimo lavorare per un’agenzia di youtuber e creator. È un mondo che mi affascina molto.

 Hai scritto diversi libri di fiction e autofiction. Che spazio hanno i libri tra tutto quello che fai?

I libri sono la parte del mio lavoro e della mia vita a cui tengo di più.

Con L’età della tigre hai presentato l’allora affermata scena trap italiana, mischiandola a un più ampio racconto sulla generazione di trenta-quarantenni e sul rappresentarsi online. Oggi la trap sembra aver perso la pervasività mediatica avuta fino ad allora, perdendo attualità. Anche il mondo di cui parlavi nel libro?

In realtà a me sembra ancora molto forte la scena trap. Se ne parla ancora tanto, anche per questioni extra-musicali e più legate alla cronaca nera, alla cronaca tout court o al dibattito sui giovani, sulla criminalità, sui famosi «maranza» col borsello e la tuta, eccetera C’è da dire che la trap è cambiata, è evoluta, si è contaminata, è diventata «drill» e ha preso strade che neppure conosco, non essendone più un frequentatore. Dato che tutto si consuma e invecchia molto velocemente, mi sembra che gli artisti che si sono affermati ormai qualche anno fa, come Ghali o Sfera Ebbasta, nel frattempo sono diventati delle specie di senatori del genere trap e magari sono più assorbiti da progetti che hanno a che fare con le sponsorship o con proprie iniziative imprenditoriali.   

Nel 2006 è stato invece pubblicato I figli delle stelle, reportage di una convention del movimento dei Realiani. Com’è nata l’idea del libro e com’è stato seguire i Realiani?

Il libro poi venne ripubblicato da Baldini & Castoldi nel 2014. Era nato dalla lettura di un romanzo che avevo molto amato, ovvero La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq. Tra i protagonisti c’era proprio la setta dei raeliani, anche se nel romanzo aveva un altro nome. Dopo la lettura del libro, scoprii che si teneva in Svizzera un grande raduno raeliano di tre giorni, così mi sono accreditato e sono partito. È stata una bellissima avventura. I Raeliani mi affascinano per moltissimi aspetti. Sono un sottoprodotto della cultura hippy e libertaria degli anni Sessanta e Settanta. Dentro c’è un po’ di tutto: il sesso libero, la new age, naturalmente l’ufologia, ma pure il transumanesimo e al centro domina la figura molto romanzesca del fondatore, Claude Vorilhon, ex automobilista sportivo che a metà degli anni Settanta si è reinventato come guru, con una sua personale visione della storia e della specie umana, ciarlatanesca ma seducente.   

Vorresti mantenere l’eterogeneità del tuo lavoro o preferiresti dedicarti a un medium più degli altri?

Vorrei dedicare più tempo alla scrittura e ai libri. Vorrei, inoltre, poter trovare un giornale, un qualsiasi contenitore, che possa permettersi di pagarmi una trasferta per andare, che ne so, a Palma di Maiorca per raccontare una storia che m’interessa, e che poi mi paghi adeguatamente, ma il mercato della scrittura è in sofferenza. Ci sono tanti creator che fanno questo tipo di lavoro, si spostano e raccontano storie, ma lo fanno con l’audiovideo, mentre per la scrittura le possibilità sono veramente molto ridotte.  

Hai scritto molto su CheFare di neurosostenibilità del lavoro cognitivo come dimensione più ampia della pura sostenibilità economica del proprio lavoro, legata alle conseguenze sulla mente del precariato e dello stress cronico. Hai intervistato diversi professionisti del settore su questo tema parlando della necessità di trovare dei meccanismi di difesa per resistere, che tu chiami postura. Qual è?

Mi ritengo piuttosto pessimista riguardo al miglioramento delle condizioni socioeconomiche di chi fa un lavoro simile al mio, specialmente se vivi in una città sempre più escludente come Milano. Perciò credo che per sopravvivere serva anche cambiare postura, cioè sguardo sul mondo, avere uno sguardo più disincantato e ironico, come può esserlo quello di un buddista di fronte alla realtà, che è imperfetta.           

Nelle redazioni e nei progetti corali esiste un discorso sulla neurosostenibilità di questo lavoro?

Senz’altro dopo la pandemia si è aperta sul lavoro una discussione che prima non esisteva, in Italia e un po’ in tutto il mondo. C’è sicuramente in corso una presa di coscienza e una consapevolezza che prima non esistevano e che considero un fatto assolutamente positivo e significativo. Io stesso sul tema ho scritto un piccolo libro, che si chiama Fine lavoro mai.

Vivi a Milano da tempo. È stato fondamentale essere lì per il tuo percorso? E in generale, per lavorare come scrittore è fondamentale vivere in una grande città?

Dipende molto da quello che scrivi, da quello che t’interessa. Se la tua scrittura si nutre del presente, allora sicuramente vivere in una città come Milano è importante.

Com’è cambiata la città da quanto ti ci sei trasferito? La Milano che descrivevi in Teneri violenti nel 2012 è uguale a quella di oggi o qualcosa è cambiato?

È cambiata in meglio, è molto più vibrante e internazionale di anni fa, capita continuamente d’incontrare persone speciali, interessanti, consapevoli e anche assetate di conoscenza e contatto umano, ma il problema è che tutte queste persone in gamba vivono nell’angoscia di non poter pagare l’affitto e di non sapere che ne sarà di loro fra due anni.

Sono cambiate molte cose. La città è diventata più faticosa e implacabile dal punto di vista economico. Al tempo stesso si è affacciata sulla scena delle arti visive, della letteratura, del clubbing, una nuova generazione, molto diversa dalle precedenti, capace di una nuova visione del mondo e dei rapporti umani, probabilmente più consapevole rispetto a quanto esisteva prima. Per ragioni generazionali, mi trovo in imbarazzo e distante su molte questioni. Per altri aspetti provo una sintonia e delle opportunità di conoscenza ed espansione che invece non trovo più in quelli della mia generazione.

Che progetti hai per il futuro?

Vorrei tanto poter iniziare a scrivere un nuovo libro. Devo solo trovare il tempo.

 

fine lavoro mai

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 10 di Awand, inverno 2023-2024.
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Michele Cornacchia
Michele Cornacchia
È del '93 e vive tra Roma e Altamura. Si occupa di politiche pubbliche, economia della cultura e infrastrutture, cui si è dedicato per studio, lavoro e attivismo negli ultimi 10 anni.

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