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Davide Serino

CINEMA. Ha scritto alcune tra le serie e i film italiani più acclamati e discussi degli ultimi anni, come M – Il figlio del secolo, Avetrana – Qui non è Hollywood, Esterno Notte e The Bad Guy. In team perché «il cuore del nostro lavoro di sceneggiatori è il lavoro di squadra». Un lavoro in cui «scegliere è la cosa più difficile: è molto più importante dire i no giusti piuttosto che i sì» ed in cui conta sempre trovare la voce giusta. «Non esiste una storia assoluta, esiste sempre un punto di vista.»

davide serino federico passaro

Davide Serino in una foto di Federico Passaro

 

Trentasette anni  e all’attivo un percorso densissimo di quantità e qualità, costellato da produzioni e collaborazioni importanti sia sul versante cinematografico che su quello della serialità. Quella di Davide Serino è una delle penne più attive e richieste dell’audiovisivo italiano.

 

Per la media di età lavorativa italiana sei giovanissimo, ma hai già scritto per produzioni prestigiose e registi importanti. Come sei arrivato al mestiere di sceneggiatore?

Sono nato in una famiglia letteraria, circondato da  libri e da storie fin da piccolo. I miei genitori sono insegnanti di lettere delle superiori, e non sarò mai grato abbastanza per questa fortuna. Mio fratello ha dieci anni più di me ed il primo libro che mi ha regalato è stata una edizione per ragazzi dell’Iliade, ancora oggi la mia ossessione, forse il libro della vita. Mi ricordo di aver sempre inventato storie, immaginando Ettore e Achille anche quando giocavo con i Playmobil. C’era invece molto poco cinema. Un po’ per le origini della mia famiglia, un po’ perché Varese non  è una città particolarmente cinefila. Ho fatto il classico e quando lo stavo finendo sapevo che volevo cercare di essere un narratore. Avrò iniziato a scrivere, dalle medie al liceo, 40 romanzi. Era facile iniziare ma quando arrivavo al secondo atto, e non sapevo ancora cosa fosse, mi rendevo conto che le cose si facevano difficili. Mi sembrava, e lo dico a posteriori in modo assurdo, che voler fare lo scrittore fosse un sogno velleitario e invece la sceneggiatura fosse qualcosa di più artigianale, di bottega, e soprattutto più un lavoro. Dico in modo assurdo perché in realtà l’investimento per pubblicare un romanzo rispetto a quello per realizzare un’opera audiovisiva è molto più basso. Cito M come esempio più clamoroso, che ha avuto un budget di 50 milioni di euro: è chiaro che un romanzo non arriverà mai a costare una cifra del genere. Però allora non lo sapevo, e mi sembrava che si potesse imparare di più il mestiere dello sceneggiatore. Questo forse è un po’ vero, nel senso quando fai lo sceneggiatore sai quante pagine puoi riempire, mentre non c’è un limite quando fai il romanziere. Quindi ho iniziato a studiare lettere moderne alla triennale a Milano, tesista con Michele Mari sul rapporto tra letteratura e cinema, in particolare su Senso da Boito a Visconti. Iniziavo allora, molto in ritardo, ad appassionarmi anche al cinema e a vedere tanti film. Ho cercato di fare il Centro Sperimentale ma non mi hanno filato. Dopo un attimo di tristezza e smarrimento, anche grazie a mio fratello che è stata una figura molto importante, ho deciso di fare i due anni di specialistica a Roma in modo da darmi un tempo: non venivo da una famiglia particolarmente abbiente e non potevo trasferirmi a Roma per un tempo indefinito. Ho finito la specialistica con Serianni, grandissimo linguista purtroppo mancato tre anni fa, e una tesi sulla lingua di Michele Mari. Intanto però nel 2011 ho intercettato un corso intensivo che si chiamava Rai Script, della durata di sei mesi, che si teneva in quel luogo meraviglioso che è la Casa del Cinema a Villa Borghese. In quel corso uno dei miei insegnanti, Nicola Lusuardi, gigantesco editor e studioso della materia narratologica, ha fatto il mio nome a tre sceneggiatori giovani e di grande talento, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo e Alessandro Fabbri, che stavano creando una serie TV per Sky, 1992. Dovevano essere tre mesi di ricerche storiche e loro cercavano qualcuno che avesse un occhio da narratore più che da storico. Oggi lavoro ancora con tutti e tre, a quasi 15 anni di distanza. Così è iniziato tutto. Nella vita ci vuole il colpo di fortuna ma poi devi essere in grado di cavalcarlo. 1992 era un period political drama e il lavoro con la storia mi ha accompagnato poi per tanta parte della mia carriera.

Come cambia il tuo modo di scrivere quando lavori insieme ad un gruppo di sceneggiatori piuttosto che ad un altro? Esiste un metodo comune o varia di volta in volta?

Io penso che il cuore di questo lavoro sia proprio il lavoro di squadra, diversamente da quello che avviene per lo scrittore. Cerco sempre di lavorare con persone più brave di me e ho avuto la fortuna di aver lavorato con geni della drammaturgia e della regia. Lavoro tanto con gli stessi, ma ogni tanto mi capita di incrociare nuovi sguardi e ci sono alcuni nomi con cui vorrei lavorare. Probabilmente però più cresci nella tua carriera più è difficile riuscire a incrociare le vite degli altri. Con Ludovica e Stefano Bises ho lavorato tantissimo e con più continuità. Ogni gruppo di scrittura è diverso e anche  il metodo di lavoro è diverso. Stefano è uno sceneggiatore che ha un metodo molto più artigianale, si struttura di meno e si scrive di più, e si arriva velocemente sulla stessa lunghezza d’onda. Con Ludovica o con Stasi e Fontana tendo ad usare il mio approccio un po’ più all’americana,  in cui prima di arrivare alla pagina si concepisce la storia sulla lavagna. Un altro pezzo importante della mia formazione è stato Serial Eyes  a Berlino, un programma internazionale di scrittura seriale che insegna a lavorare come le grandi writers room americane: lavagnone, cards dopo cards e sessioni di gruppo per arrivare ad un impianto solidissimo su cui scrivere. Questi sono i due poli di metodo opposti, e non ce n’è uno migliore. In questo lavoro devi imparare a farti le domande giuste per non sprecare la tua energia e il tuo tempo, ma la risposta può arrivare parlando 5 giorni di fila con i tuoi colleghi o sbattendo da solo la testa contro il muro. L’invenzione è sempre fondamentale e deve esserci, ma in base alla persona con cui lavori lo trovi in un momento o in un modo diverso.

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 16 di Awand, estate 2025.
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Stefano Lorusso
Stefano Lorusso

Medico e cinefilo, affianca da anni al camice bianco l’amore per il cinema, considerandolo la migliore delle terapie. È stato collaboratore della riviste Nocturno e  I-filmsonline. Dal  2010 è nella redazione di Paper Street , per cui segue ogni anno la Mostra del Cinema di Venezia.  È autore di saggi pubblicati sulle raccolte Il Divo di Paolo Sorrentino – La grandezza dell’enigma (2012) e Cento registi per cui vale la pena vivere (2015), editi da Falsopiano. Ha collaborato alla creazione del portale Longtake con schede sul cinema di Spielberg, Antonioni, Rosi, Wenders. Nel 2017 fonda il circolo di cultura cinematografica “Formiche Verdi”, attivo nell’organizzazione di numerose manifestazioni e rassegne. Speaker radiofonico, cineblogger, collezionista, esplora il cinema in molte direzioni, dalla ricerca musicale a quella iconografica legata alla produzione di manifesti e locandine.

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