FOTOGRAFIA. È tra i fondatori di Cesura, collettivo e casa editrice. I suoi progetti affrontano i “confini”, naturali, urbani o culturali. Le interessa «la fotografia in termini sociali, quella che ha a che fare con le persone», quelle che vivono le periferie e quelle che subiscono i conflitti.
Arianna Arcara in una foto di Mattia Buonomo
Arianna Arcara è tra i fondatori di Cesura, il collettivo fotografico creato circa venti anni fa da alcuni degli allievi di Alex Majoli. Oggi lavora soprattutto per istituzioni museali e giornali, insegna e porta avanti progetti iniziati nel tempo che chissà quando e come terminerà.
A cosa stai lavorando in questo momento?
A un bando, Strategia Fotografia, che Cesura ha vinto l’anno scorso con un progetto che abbiamo chiamato Photobuster I Tàlia e che porta i fotografi del collettivo in residenza in alcune città o regioni. Io sono nel gruppo Sardegna dove, dopo un viaggio di perlustrazione, sarò per tre settimane. Al termine il progetto prevede una mostra e dei talk nelle scuole per presentare sia quello che facciamo come collettivo che il progetto stesso.
Cosa fotograferai in Sardegna?
In Sardegna sono stata già più volte, sono mezza sarda e mezza siciliana di origini, e lì in passato ho iniziato progetti mai finiti. In età più giovane ho fotografato le miniere abbandonate e poi ho cominciato un lavoro sugli incendi, invece quest’anno a settembre ricorre il trentennale della morte di Sergio Atzeni, uno scrittore sardo, e ho colto l’occasione per ripercorrere due tra i suoi libri. Bellas Mariposas racconta la storia di due ragazze che crescono nella periferia di Cagliari, Passavamo sulla terra leggeri — che penso sarà il riferimento per un progetto a lungo termine — è una narrazione un po’ epica della storia della Sardegna, fra le varie invasioni, il forte legame dei sardi con la loro terra, con la grande madre natura, collegata alla donna e a una società che è stata a lungo matriarcale. Il libro tratta poi tutta la parte magica e spirituale della Sardegna, che è l’aspetto più difficile da far trasparire nelle fotografie.
In diversi dei miei lavori seguo tematiche vicine all’adolescenza e preadolescenza, in questo viaggio guarderò sicuramente a questi temi concentrandomi però più sul femminile. Alcune ragazze mi hanno chiesto di essere fotografate con le loro madri e questa è risultata essere una richiesta importante, avvicinandomi anche al mio vissuto di figlia di donna sarda. Il libro che sto seguendo come traccia parte da una tradizione sarda molto profonda, quella del tramandare la storia e le usanze oralmente, cosa che accade anche nella mia famiglia, quindi in questo senso non sono una spettatrice esterna. È una terra che io sento molto mia, anche se sarò sempre la ragazza del continente.
Come scegli i lavori a cui dedicarti?
Qualche anno fa ho dovuto preparare un portfolio molto dettagliato, è stata l’occasione per riguardare il mio archivio. Questa operazione mi ha permesso di tirare le fila del mio lavoro rendendomi conto che l’inizio era il punto al quale stavo tornando dopo più di 15 anni. Ho anche accettato che sono un’autrice alla quale viene difficile dire questo è il mio tema. Mi piace usare il termine confini, perché spesso ho scelto tematiche legate a quella parola. Ho lavorato a Cipro e a tutta la questione politica che ha portato alla divisione dell’isola; anche l’adolescenza o la preadolescenza sono fasi della crescita in cui c’è un confine da attraversare. Da giovane ho fotografato il Po e anche quello è un confine. Negli ultimi anni uso la regola dell’imbuto, qualsiasi lavoro mi arrivi cerco di convogliarlo verso le tematiche che mi interessano, perché mi sono resa conto del rischio di diventare il criceto nella ruota: ti affidano un lavoro, lo fai, si aspettano determinate cose da te e via così.
Come sei arrivata alla fotografia, come hai capito che è il tuo linguaggio?
Da adolescente ero appassionata di musica punk-hardcore, andavo ai concerti ma non avevo amici con la mia stessa passione, mi vergognavo un po’ ad essere lì da sola, quindi ho iniziato a fotografare, è così che ho cominciato a usare la macchina fotografica per calarmi dentro una situazione e trovarmi un ruolo, questo ovviamente l’ho capito solo dopo. Ho frequentato quello che allora si chiamava ISA, l’Istituto d’arte a Monza, e lì ho conosciuto i professori Flavio Pressato, che aveva una camera oscura in laboratorio, e Gianluca Chinnici, che insegnava fotografia, anche se io non ero ufficialmente sua allieva. Chinnici mi ha dato i primi strumenti, poi ho iniziato a sperimentare, a giocare con la fotografia e già in quinta superiore avevo chiaro che volevo far quello. Uscita dalla scuola ho avuto la fortuna di vincere una borsa di studio che mi ha portato a studiare in America e, una volta rientrata, ho iniziato a lavorare per Alex Majoli. Sliding doors e esperienze che mi hanno portata a scoprire che c’era un altro tipo di fotografia che mi apparteneva di più.
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