In equilibrio fra la canzone d’autore e il punk, fra l’avanguardia artistica e il mainstream sanremese. A lui Awand dedica il primo Album, una selezione di sei fra i suoi testi, nati in altrettanti momenti importanti della sua vita, accompagnati dai disegni di Franz Kafka.
Mauro Ermanno Giovanardi in una foto di Silva Rotelli / Warner
Sulle pareti di casa i dipinti di Giacomo Spazio, i poster dei La Crus, la convocazione a Sanremo, le foto di quella volta che con i Carnival of fools aprì una data milanese di Nick Cave, nel 1994. L’arte di Mauro Ermanno Giovanardi è lì: in equilibrio fra la canzone d’autore e il punk, fra l’avanguardia artistica e il mainstream sanremese.
Hai cominciato a cantare per rimorchiare?
Mi sa che sono uno dei pochi che no. Fino a quasi 18 anni — facendo uno sport molto faticoso come il ciclismo — non sapevo quasi nulla di quello che c’era oltre il manubrio della mia bici. Pedalavo sei giorni su sette, facevo più di 20.000 chilometri l’anno. È stato faticoso, ma mi ha lasciato dentro l’idea della costanza, del sacrificio. Dell’impegno quotidiano. Poi nel ‘79 mi presi la pertosse e il medico mi vietò di salire in bicicletta per qualche mese, e in estate in vacanza, a casa dei miei cugini in Emilia, ho scoperto la musica. Qualche mese dopo andai al concerto di Patti Smith a Bologna e mi dissi “Ma che cazzo è stà roba!”. Subito dopo incrociai Nessuno uscirà vivo di qui, la biografia di Jim Morrison dei Doors, e quel libro, anche se un po’ romanzato, cominciò a cambiarmi la vita. Qualche mese dopo ero a Londra e il cambiamento fu definitivo. Completato. È stata una fortuna capitare nella capitale inglese in quei mesi così importanti per la storia della musica: il punk, la new wave… per noi ascoltare e poi fare quel tipo di musica, era come mettersi una divisa e dire “Io voglio essere diverso”. Suonare è sempre stato un modo di andare dall’altra parte, qualcosa di... non voglio dire mistico, ma comunque spirituale, qualcosa che ha a che fare con un rito orgiastico. Anche adesso dopo quarant’anni che faccio solo questo, non vado mai su un palco tanto per. Quel senso di ritualità lo cerco sempre. Per cui diciamo che le femmine sono arrivate dopo. Ma quello che mi muoveva era davvero altro.
Il tuo, il vostro è un atteggiamento che qualcuno ha anche adesso, tra chi si approccia alla musica?
Non voglio fare quello che “ai miei tempi si stava meglio” perché penso che la musica e le arti in genere, rappresentino sempre lo specchio della società. Sono cambiati i valori, per noi, per me, ma penso per tanti miei colleghi, che hanno iniziato a fare questo lavoro tanto tempo fa. Non si pensava mai per prima cosa ai soldi. Certo, se poi fossero arrivati, tanto di guadagnato. Ma cercare di raccontarsi, esprimersi, dire qualcosa che ti rappresentasse per davvero era la cosa più importante. Anche coi La Crus, avevamo un contratto con Warner ma al direttore artistico era vietato entrare in studio, noi consegnavamo il disco finito, già masterizzato. Il primo album è super sperimentale, ci sono tanti pezzi che non hanno neanche i ritornelli, erano brani super rumoristi. Cercavano di far convivere il nostro background post punk con la canzone d’autore. Abbiamo capito poi come funzionava il mercato e abbiamo cercato un equilibrio, mantenendo al 100% quello che eravamo e provando a far diventare questo approccio musicale un po’ meno criptico. Ad un certo punto io ed Alex Cremonesi (co-autore di molti dei brani dei La Crus, Ndr) ci siamo detti che era troppo facile avere una scrittura ermetica con cui puoi dire tutto e niente. Dovevamo e volevamo farci capire di più. Prendendo spunto dalla Leggerezza pensosa delle Lezioni Americane di Calvino, abbiamo voluto raccontarci cercando una via alla scrittura più semplice, ma molto pericolosa. Far convivere la poesia con la quotidianità, senza cadere nella banalità. Un testo come quello di Nera signora non l’avremmo mai più scritto. Per cui la questione che riguardava i soldi veniva dopo. Sempre. Credo che adesso sia l’opposto, mi sembra che un ragazzino che inizia oggi a fare musica, di tutta questa roba qui non gliene freghi un cazzo. Visibilità e grano sono gli obbiettivi. Anche in noi c’era sicuramente un po’ di narcisismo, perché se scegli questo lavoro e vai su un palco un po’ lo devi avere, ma l’equilibrio fra forma e sostanza, per citare i CSI, era importante, e comunque alla fine, veniva sempre prima la sostanza. Non può girare tutto e solamente intorno alla quantità di like che riesci ad avere
(...)
L'articolo integrale è pubblicato nel n. 7 di Awand, primavera 2023.
Abbonati, acquistalo o cercalo nei punti vendita.