LETTERATURA. «C’è questa frase che ho cominciato a odiare, detta spessissimo rispetto al mio libro Niente di vero: “È un libro che fa ridere, ma fa anche riflettere”. Come se un libro che fa ridere fosse qualcosa di per sé non del tutto ok, una diminutio». «L’idea di contaminare generi diversi a me sembra estremamente interessante e virtuosa, amo gli scrittori e le scrittrici che lo hanno fatto».
Veronica Raimo in un ritratto di Alessandro Imbriaco
Veronica Raimo è scrittrice, sceneggiatrice e traduttrice. Con Niente di vero (Einaudi) ha vinto il premio Strega giovani, La vita è breve, eccetera (Einaudi) è il suo ultimo libro. La sua è una lingua affilata e generosa, capace di una letteratura che si arrovella sulle questioni del mondo e mette sempre in discussione sé stessa.
La tua mi sembra essere una scrittura sentimentale nel senso più alto del termine, laddove però i sentimenti sono ansia, vergogna e noia.
Sentimentale per me è un aggettivo problematico perché mi sembra di essere molto spesso anti-sentimentale, mi sento più romantica come indole, vale a dire l’idea che non ci sia un futuro, è un’idea più di struggimento che di sentimentalismo in cui invece c’è una speranza che le cose possano durare, a questa cosa non ci ho mai creduto, non è una postura che ho neanche nella letteratura. Quelle che citi sono istanze che si ritrovano nella mia scrittura ma credo che il sentimento predominante sia il senso della perdita e del rimpianto: è un po’ l’incapacità di vivere una cosa nel momento, quanto nella proiezione di quando non ci sarà più, la creazione del rimpianto a venire. Riguarda molti personaggi dei romanzi e dei racconti che ho scritto, questa sorta di sabotaggio delle loro vite, di distruzione di quello che hanno; come se per provare davvero qualcosa dovessero comunque metterle alla prova, in crisi. È una continua messa in crisi del proprio reale e delle emozioni, sono dei personaggi che non sanno esattamente cosa provano, cosa desiderano e credo che questa costante di incertezza, di caos, di ambiguità sentimentale sia proprio una caratteristica che li accomuna.
Infatti sia in Niente di vero che in La vita è breve, eccetera, all’interno della dinamica del racconto c’è sempre un momento in cui il personaggio si interroga sulle sue relazioni mancate, una sorta di auto-analisi per comprendere il processo relazionale. Questo per te è un modo per interrogare te stessa, per interrogare la scrittura?
Sì, credo di sì. In generale l’arrovellamento mi piace. Anche perché l’arrovellamento a vuoto, che non va da nessuna parte, mi sembra la cosa più interessante del processo, è bello quando uno ci sta dentro, non bisogna per forza venirne fuori. Cavillare, vedere le cose con diverse prospettive, metterle in crisi, smontare, rimontare è probabilmente una forma di nevrosi, però sia nella scrittura che nella vita cerco di vedere anche la prospettiva contraria di una cosa che ho appena pensato. È proprio una specie di tic che ho. Poi io non ho mai fatto analisi e forse questa forma di arrovellamento nevrotico me lo autoinduco senza che abbia uno sbocco o sia veramente risolutivo. È tentare in tutti i modi di non essere assertiva, io odio le persone assertive, odio i personaggi assertivi, cioè più che odiare mi annoiano a morte. Quelli che dicono “Ho capito la vita. Ora sto in questa fase. Ho capito qualunque cosa” e spiegano dove stanno, cosa hanno capito, dove stanno andando... mi si para davanti come un muro di noia totale.
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