Avrebbe voluto essere una cantautrice, è una delle giovani voci più interessanti della poesia italiana. «La poesia, anche quando affronta questioni dolorose, ha sempre in sé una funzione di trasformazione per quel dolore. Non mi aspetto mai che l’arte consoli, ma che scuota e trasformi e così facendo mette in vita il dubbio, che è qualcosa di vitale.»
Roberta Durante in un ritratto di Matteo de Mayda
“Bisogna averci un po’ di voglia di morire, per aderirci, al vivere”, scriveva Sanguineti. Cos’ha a che fare la poesia con la vita e con la morte? Dove ci incontra tra realtà e immaginazione? Ne abbiamo parlato con Roberta Durante, classe 1989, autrice.
La tua ultima raccolta è intitolata I bimbi sperduti (Einaudi, 2023). Chi sono questi bambini? E dove si perdono?
Chiunque si riconosca in questo titolo è un bimbo sperduto. Per essere un bimbo sperduto è necessario stare sempre al limite del dolore, della disperazione, ma riuscire poi sempre a cogliere, anche se sul finale, lo spiraglio, l’amore. Sempre la disperazione e la speranza insieme, questo significa essere bambini sperduti. Difficilmente i bambini sono senza speranza, quindi una possibilità è che quella speranza, così difficile da intravedere, sia nascosta nel taschino della loro giacca, più che nelle nostre. Anche la speranza comunque può essere dolorosa, perché in fondo prende vita da qualcosa che non c’è e che non sappiamo quindi se esista, ma la speranza è clemente, concede il tempo necessario per scegliere, nel dolore che ci circonda, l’amore che può darsi. Ci suggerisce che nonostante nulla importi davvero, serve proseguire, serve andare contro una corrente che è la stessa che ci porta vita e tormento, serve sfidare questo dualismo tra la vita stessa e il suo ideale che non potremo mai raggiungere. Qualsiasi fuga da tutto questo è peggiore, è addirittura più dolente.
Il posto dove ci perdiamo di più credo siano in verità i nostri pensieri. La mia sperdutezza è composta da un’esagerata voglia di vivere che si scontra sempre con l’idea che nulla abbia senso, ma per il fatto che nulla ha davvero importanza, allora nemmeno l’insensatezza di tutto importa e quindi: viva la vita e tutto ciò che ne consegue. Viva, soprattutto, riuscire a vedere sempre anche un minuscolo amore nella valle di dolore che abitiamo. Bisognerebbe leggere meglio Leopardi, o solo leggerlo di più.
C’è una poesia in questa raccolta che inizia così: “Per dimenticare che si muore fare mostre/ricomporre la vita immortale degli artisti”. La poesia ci fa dimenticare che dobbiamo morire o ce lo ricorda?
Probabilmente ce lo ricorda. Ma non vuole essere un monito, ovviamente, è una riflessione intorno al meccanismo del lavoro e alla sua inutilità, come tutto. Tutto si gioca su questo continuo dualismo di dover fare, di dover mettere a frutto e la fine inesorabile di qualunque cosa si faccia.
Per me è molto curiosa la storia dell’umanità sulla terra, è qualcosa di prodigioso e altruista e io amo uomini e donne che hanno inventato la ruota, la prospettiva, la penicillina, nonostante sapessero di dover morire. Le mostre, di cui parlo nella poesia, rimettono in vita tutte queste storie stupende, sono storie vere, di mostre vere, a cui ho avuto la fortuna di poter lavorare anche io. Parlo di mostre e parlo, alla fine, anche di mostri, sempre invenzioni umane. Ma in questo caso mi fermo prima di elencarle e fingo che gli unici mostri che l’uomo ha inventato siano quelli mitologici, come Esculapio, il magico guaritore con il bastone avvolto dal serpente, da cui nasce la figura del Serpentario e la sua costellazione.
Ricorro spesso alle stelle, in momenti di sconforto, non tanto per un credo di tipo astrologico, ma perché cerco di ricordarmi, con estrema razionalità, che mi trovo su un grande sasso che gira su se stesso e intorno al sole e così automaticamente i pensieri malvagi si autodistruggono. Pensare che niente importa è tragedia e salvezza, al solito.
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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 14 di Awand, inverno 2024/2025.
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