Da circa trent’anni è una delle penne più ispirate della musica indipendente italiana. Prima con gli Scisma e poi come solista (anche se, come dice, è sempre a capo di un gruppo), ha descritto in parole e musica la complessità dell’animo umano come pochi altri hanno saputo fare.
Paolo Benvegnù in un ritratto di Mauro Talamonti
FP Prendiamo spunto dal titolo dell’ultimo album: è davvero inutile parlare d’amore?
In questo mondo, in cui tutto è teso all’utile e c’è un discorso prettamente economico di potere personale rispetto agli altri, che l’amore sia inutile! Che sia una cosa pura, che non tenda all’utile ma ad intercettare l’irrazionale nell’altro. Per questo spero che sia inutile parlare d’amore e spero che sia inutile anche praticarlo, nel senso che non sia commercializzabile e finalizzabile.
FP Fare musica quindi è utile o inutile?
La musica quando non è per istruiti, ma per educati sentimentalmente, è utile dal punto di vista della visione che si può avere rispetto alle cose. È come un potente unguento di conforto verso la realtà che azzanna.
FP Gli Scisma sono stati la tua band prima dell’esperienza solista, con una breve reunion una decina di anni fa. Che valore dai, a distanza ormai di anni, a quello che hai fatto con loro? Li vedi come qualcosa di separato dal tuo percorso successivo o un punto di partenza per quello che hai fatto dopo?
Ho questo problema: mi sveglio ogni mattina pensando di non aver fatto niente fino al giorno prima. Quello è stato un meraviglioso romanzo di formazione, mi viene da pensare ai ragazzi della Via Pal, ma noi eravamo del Lago di Garda. È stato molto utile per formarci come esseri umani. La cosa divertente è che poi non è cambiata tanto la mia vita, nel cercare disperatamente di avere qualcosa da dire, perché secondo me i Benvegnù sono un gruppo come gli Scisma. Più o meno la dimensione è la stessa: io propongo delle cose ai miei compagni e poi loro le ingentiliscono. Perciò io mi sento il cantante di un gruppo. Ho sempre avuto l’ambizione che i Paolo Benvegnù fossero come i Ramones, ma evidentemente il cognome non è così figo e nel confronto perdiamo sotto tutti i punti di vista. Riguardo agli Scisma, ci tengo poi a rivendicare il fatto che siamo sempre stati avanti, infatti abbiamo fatto la reunion dieci anni prima che tutti si riunissero e tra l’altro siamo stati gli unici a non voler monetizzare…
FP Cosa cerchi in un musicista, in una persona, affinché lavori con te?
Cerco il dialogo, e più trovo che questo dialogo sia contrario al mio modo di pensare le cose, più lo trovo prezioso. Cerco disperatamente, specialmente negli ultimi anni, forse per la vecchiaia, di andare con coercizione su persone molto giovani. Mi incuriosisce e mi intenerisce la debolezza ed il timore di non essere a fuoco, perché anch’io sono così. Quindi cerco disperatamente di non mettermi a fuoco assieme agli altri, questo è quello che succede.
AC Com’è cambiato nel tempo il tuo modo di scrivere, il tuo processo creativo?
Dipende dalle parole che imparo, ogni giorno è come se fossi in seconda/terza elementare. Se incontro qualcosa nel mondo che mi amplia il vocabolario, il sentimento e lo sguardo, allora scrivo in maniera diversa. Perciò quello che faccio è andare verso queste cose, verso la novità non per il mondo ma per me. Nella scrittura, pur essendo pigro, continuo lentamente ed inesorabilmente a cambiare, infatti sia con gli Scisma che con i Benvegnù non ho fatto dischi definitivi. Spero intorno ai 78 anni di riuscire a farlo, lo penso davvero anche se potrebbe sembrare understatement da parte mia.
FP Quindi come nasce un tuo disco, dedichi dei periodi appositi alla scrittura o è un processo discontinuo e alla fine tiri le conclusioni?
Semplicemente mi metto nello sgabuzzino da cui sto facendo l’intervista, di dimensioni 3,82 x 1,69 metri, e tento di trovare un minimo denominatore comune di intensità della parola, valido per me e per chi mi sta intorno. Parto dal titolo e poi comincio a scrivere. Questo è diverso rispetto ai primi dischi dei gruppi, quando scrivi per 4-5 anni e poi raccogli le cose migliori. Fare un disco ex novo, magari avendo otto mesi di tempo, è più difficile, ma mi piace farlo. Ovviamente ogni opera di creazione di un essere umano di sesso maschile è fallimentare, perché non creiamo in carne e sangue, perciò ogni volta arrivo in fondo sapendo di avere fallito. È bellissimo, perché la volta dopo fallisci meglio.
AC Le tue canzoni sono uno specchio in cui ti rifletti o una finestra per guardare fuori di te?
Io faccio una grande lotta tra me e me, e perdo spesso. Perciò è più un tentativo di divinare che cosa mi succederà, che cosa succederà alle persone che incontro e alle cose che intercetto. Rimango qui, faccio delle cose in quantità, perché non sento di avere grande talento, e sgocciolando qualcosa arriva. Poi penso di avere una qualità, ossia mettere assieme in maniera abbastanza decente il risultato di questo sgocciolamento. Non ho il talento della fiamma, come ce ne sono stati nella storia, io ho il talento del bove, ho bisogno di un piccolo aratro, che è dentro di me, e di un piccolo campo da arare, da cui poi vengono dei frutti, non necessariamente buonissimi.
AC Davvero parti dai titoli?
Sì. Ad esempio, per l’ultimo disco il titolo doveva essere “Transmiserabilia” e non “È inutile parlare d’amore”, perché, secondo me, mai come in questo momento siamo in transizione ed ognuno di noi, in maniera miserabile, cerca di essere un visconte, un duca, un eletto. Ho scritto una parte di quel disco, ma era un’invettiva dietro l’altra. Poi mi sono chiesto con i miei compagni: «davvero dobbiamo fare un disco di invettive? Non si sa già che tutte queste cose sono sbagliate?» Allora siamo andati in un’altra direzione e a quel punto il disco ha preso un altro titolo.
AC La canzone che ti è costata più fatica chiudere?
Di solito quelle difficili le taglio subito. C’è però un pezzo, che ho fatto per uno spettacolo teatrale in maniera diversa, si chiamava “Patricide” e non è mai uscito. Quella è stata la canzone più difficile, ci ho lavorato mesi senza trovare nulla poi a un certo punto, anni dopo, mi sono ricordato e l’ho finita in due minuti. Non andrà mai su un disco, l’ho fatta una volta sola dal vivo.
AC Scrivi molto, a parte le canzoni?
No, non scrivo tanto ed è una cosa che mi dispiace. Io ascolto, guardo. Più che altro quello che faccio è stare in silenzio e immaginare. Questo sgabuzzino per me è l’Himalaya, io resto qui dentro e immagino quello che accade fuori, infatti spesso mi sbaglio rispetto a quello che gli altri esseri umani vivono. Mi piace tanto leggere e guardare film, questo è quel che faccio. Spesso mentre leggo o guardo film mi immagino scenari diversi. La realtà che noi viviamo è una realtà in cui coincidono anche quelle adiacenti; quando vedo qualcosa di veramente sicuro, comincio a chiedermi che cosa è successo nella verità adiacente e se quello che vedo ha effettivamente un senso senza le verità alternative.
AC Sei bravo a spendere bene la tua attenzione, a restare concentrato?
Sì, sono nato a Milano e non posso essere altrimenti… questo mi ha dato delle grandi difficoltà, perché il mondo è molto diverso rispetto al controllo che ha una persona che è nata a Milano e che viene costruita dai genitori e dalla società per essere funzionante. Il mondo alle volte funziona, alle volte funziona proprio perché non funziona. Lentamente mi sto slacciando da questo. Quello che non riesco a slacciare è la concentrazione, sono sempre concentratissimo su ciò che c’è intorno, pure troppo.
AC Sei nato a Milano ma poi hai vissuto anche in altri posti. Il luogo in cui vivi incide su quello che scrivi?
Sì, ad esempio a Città di Castello vivevo in questa casa che parlava, scricchiolava perché era molto antica, ed ero a 150 metri da dove Raffaello aveva fatto lo Sposalizio della Vergine. C’erano questi cieli rinascimentali, con le nuvole tagliate sotto; quando ho scritto “Earth Hotel” e “H3+” quello era lo scenario. Quindi sì, scrivere sul Lago di Garda è diverso che scrivere a Firenze o a Perugia; tra l’altro ogni luogo contiene tutte le vite che ci sono passate come il mio mixer analogico contiene tutte le tracce che ci sono passate dentro. È ovvio che non è scientifica questa mia considerazione, però viviamo in un mondo dove ci sono delle grandi stratificazioni, come quando vai sulla Flaminia e senti ancora il clangore dei romani che stanno costruendo le strade.
AC Cosa ti porta da un luogo all’altro?
A volte è successo perché dovevo andare a suonare con qualcuno e dovevo muovermi, ma in realtà lo faccio se riesco a trovare una luce diversa da quella che ho trovato nei posti precedenti. Parlo della luce del sole, delle giornate, e se mi ci trovo bene allora cambio.
AC La grande città non ti manca?
Roma l’ho un po’ subita, Milano l’ho subita clamorosamente, quindi se parlo delle grandi città italiane conosco queste. Napoli l’ho frequentata poco ma è una città troppo fantasiosa per me, sono veramente un prussiano sotto questo punto di vista e non ce la farei. Mi piace pensare che in provincia ci sia uno sguardo più ampio verso l’orizzonte e che sia tutto più possibile. Non parlo solo di fare musica, parlo in generale, che si possa pensare più a lungo termine, che si abbia più tempo per pensare ed agire secondo il tuo desiderio ed il tuo piacere, non entrando nella competizione. Per me che sono apolide ed un vecchio anarchico, mi sembra una cosa interessante.
AC Hai detto che sei pigro, quanto sei disciplinato?
Sono pigro nel senso che potrei scrivere tutto il giorno e tutti i giorni, ma non lo faccio e attendo le cose che devono essere scritte. È una cosa legata alla stretta necessarietà. Se facessi il giornalista scriverei tantissimo; i giornalisti fanno un lavoro bellissimo, specialmente quanto riescono ad avere a cuore ciò di cui scrivono. È un lavoro che invidio molto, perlomeno fino a qualche anno fa se penso che c’erano le rotative, tre edizioni al giorno, i giornalisti non avevano orari e mi sembra un lavoro simile al mio. Io invece devo fare altro, per questo mi metto in silenzio e in questo silenzio sono assolutamente disciplinato. Quando rompo il silenzio e la pagina bianca, è perché è necessario farlo.
AC Il rapporto con le etichette com’è? Ne hai cambiate un po’… Che ruolo hanno adesso rispetto al passato?
Il rapporto con le etichette è strano, è un po’ come il rapporto con le uniformi: da un lato ti qualifica e dall’altro ti rende appunto uniforme agli altri. Perciò è un po’ come essere piccoli soldati anche quando si è con un’etichetta. In Italia in questi venticinque anni ho sempre trovato degli esseri umani molto interessanti; pensavo che dovesse essere istrionico chi fa musica e invece ho trovato molto più istrionismo dall’altra parte. È molto interessante quando ti trovi tu a dover rassicurare la persona che ti ha fatto firmare un contratto; da quel momento ho creato un nuovo lavoro, sono diventato un rassicuratore. Al di là di questo, ciò che accade in questo momento è che c’è una grande corsa all’oro, perché in Italia è stata trovata una vena; in questo modo Las Vegas diventa Las Vegas, ma poi arriva la depressione. Queste sono discipline umanistiche, perciò dovrebbero tendere a un rapporto più innovativo di espressione, ma mi sembra che questo non capiti. C’è una grande corsa all’oro, mi auguro che tutti diventino ricchi.
FP Qual è il tuo rapporto con la stampa? Secondo te ha ancora valore la critica musicale o anche questa è andata sciogliendosi?
Se fossi un critico musicale e mi arrivasse un mio disco, direi che è osceno, anzi nemmeno, direi che è talmente mediocre che all’oscenità non ci arriva. Due sono le misure per me: la prima è che ora sono tutti dei fenomeni e dunque il giornalista deve dire che sono fenomeni, e questo procura problemi agli altri musicisti, che si chiedono perché suonano dato che gli altri sono già tutti fantastici. D’altra parte, io non ritengo che la critica musicale italiana abbia avuto un senso o un peso negli ultimi cinquanta anni, perciò nulla è cambiato sotto il sole, a parte che negli ultimi venti anni si sono formate delle fazioni. In primis c’è un calderone, e capita di vedere Einsturzende Neubauten e Tiziano Ferro nella stessa fanzine; in seconda battuta, non c’è scouting, quello che dovrebbe fare un giornalista è andare ai concerti e riportare quello che ha visto, bisognerebbe vedere i gruppi agli inizi, è facile scoprire David Bowie al decimo disco. Detto questo, il rapporto strano che ho con la critica musicale è che spesse volte dicono che i nostri dischi hanno un senso e questo per me è inspiegabile.
FP Hai lavorato spesso anche come produttore artistico. Come ti poni quando produci? “Alla Steve Albini”, quindi lasciando fluire l’energia della band, o tendi più a intervenire, a guidare?
Per un certo modo di fare musica, la scomparsa di Steve Albini è stata come quella di Mastroianni per il cinema italiano, ha lo stesso impatto. Io penso che lui più che altro facesse la levatrice di suoni, arrivava un gruppo con delle potenzialità e lui cercava di tirare fuori sia il suono che il messaggio anche attraverso il suono. Io, magari più sul piano della letteratura dei brani, ho fatto lo stesso per una quindicina d’anni.
AC Quanto conta la produzione sul risultato finale, può cambiare davvero tanto?
Sì, se la produzione è sana e appunto è levatrice, sì. Secondo me si deve verificare un corto circuito positivo da parte di tutte le parti in causa. È come avere un occhio esterno che ti aiuta a risolvere le situazioni, le piccole controversie che ci sono all’interno di un gruppo, dove ognuno tende a tirare per la sua strada. Un gruppo con dei veti incrociati potrebbe teoricamente dare 400, ma con questi veti arriva a massimo 250, con un bravo produttore quel gruppo diventa da 800, perché viene raddoppiata la fiducia e la potenzialità. È molto significativa la fiducia tra le parti, una volta che c’è questo, i dischi sono completamente diversi. Quando si verifica questo, fare i dischi è fonte di felicità per tutti.
FP Che importanza dai alla dimensione live della tua musica? Nel tempo è cambiato il tuo rapporto con il concerto?
Suonare dal vivo è un po’ come fare l’amore. All’inizio non capisci niente, sei soltanto invasato di te e di quello che succede, non hai neanche le sensazioni. Poi pian piano questa cosa viene distillata, diventa diversa. Ora per me andare a suonare è la cosa più bella del mondo, perché mi fa diventare quello che ho sempre sognato di essere, cioè una cantante, una signora un po’ corpulenta ma bellissima. Quando faccio i concerti canto per poter essere Ella Fitzgerald, con pezzi molto più brutti e molto meno talento, è una sorta di metempsicosi, che avviene in un tempo e in uno spazio diverso ogni volta. Non mi piace vedere queste produzioni che si ripetono uguali in posti diversi, è come avere sempre la stessa stanza, che è casa tua, in alberghi diversi; perché vai in albergo a quel punto? Tanto vale stare a casa.
AC Quando sei a tuo agio in questo momento storico?
Quando sono in questo sgabuzzino, è un’astronave con le pareti in cartongesso ricoperte da cartoni di uova. Qui mi sento a mio agio, in altri luoghi della realtà, no. La realtà azzanna e toglie il pensiero del volo, ti toglie l’illusione, non dico la vertigine che sarebbe troppo, di elevarsi e di poter guardare il cielo.
AC Quali sono le tre persone più importanti per la tua formazione?
Per me il mio maestro elementare è stato fondamentale. Si chiamava Giuseppe Pierri, c’è una canzone degli Scisma che si chiama giustappunto così. Era un essere umano molto empatico con cui ho stabilito, senza dirci nulla, lui da vecchio uomo del Sud e io anche perché lo sono diventato grazie a lui, un rapporto di grugniti ma di intensità notevolissima. Io fin da piccolo ero più padre che figlio. Quello è stato davvero l’incontro fondamentale. Poi all’epoca andai a vedere Gaber ed era enorme, da solo sul palco; poi per curiosità andai a vederlo uscire dal retro del teatro ed era 10 cm più basso di me, e lì ho capito delle cose riguardo ai concerti e alla metamorfosi che citavo prima. Infine, un incontro che ho fatto, di cui ho capito l’importanza e l’intensità soltanto più avanti, è stato quello con De André. Con gli Scisma vincemmo il Premio Ciampi per il disco d’esordio e quella sera suonava De André; vederlo nel camerino, zitto, che guardava per terra, all’epoca mi fece una certa impressione, mi fece pensare “non è felicità la musica”. Poi invece ho imparato che proprio in quei tagli c’è la rampa di lancio per la felicità, devi affrontarli ed uscire dall’altra parte. Quello che all’epoca mi era sembrato come qualcosa di strano, particolare, triste, mi ha fatto poi capire la forza che aveva, che la sua grande forza era la sua debolezza.
AC Cosa ti rende felice?
Ogni cosa, non ho nulla che mi renda infelice perché ci sono passato dall’infelicità e adesso ogni cosa che succede per me è un miracolo. Il fatto che io abiti in questo corpo in questo pianeta senza alcuna volontà di torcerlo a mio favore mi sembra un bellissimo inizio per essere felici. La cosa incredibile è che sono felice anche per gli altri. Poi sono particolarmente felice quando da piccola cellula dell’universo, mi ci sento tale. Ci sono momenti in cui si è particolarmente presenti a questo e ci si mescola con l’universo, quello è il momento più alto che c’è.
AC Cosa deve esserci in un libro, un disco, uno spettacolo, affinché tu possa trovarlo interessante?
Io cerco le cause. Le cerco in me e non le trovo mai. Quando vado a vedere un film e questo film non mi ribalta, posso apprezzarne l’estetica, la fotografia, anche i dialoghi, ma non arriva a toccarmi, allora manca qualcosa. Quello che mi sembra manchi in questo momento è il porsi domande come “per quale motivo mi muovo in questo momento? Qual è il motivo della mia noia? Della confusione?”. Ecco, in un’opera quello che cerco è questo.
AC Mi fai un esempio di un film che ti ha ribaltato?
Non sono neanche troppo originale, ma posso dire C’era una volta in America, che ho visto da ragazzo, dove vedevo l’estendersi della linea della vita di un uomo nel tempo in un momento in cui ci si sente invece immortali. Un altro film che mi ha veramente cambiato l’ottica è Stalker di Tarkovskij; per certi versi anche un film di Scorsese che ho visto qualche anno fa, quando vivevo a Roma, Shutter Island, che parlava delle piccole scatole cinesi che avevo avuto nella mia esistenza.
AC L’ultima volta che ti è successo?
Con i film è difficile, dato che ho una bambina di sette anni e ultimamente ho visto solo le varie fabbriche di cioccolato e Frozen. L’ultima folgorazione letteraria è permanente, si tratta di un libro che ho letto per la prima volta trent’anni fa e si chiama Il mare verticale, che è un libro incredibile; è talmente pericoloso per un essere umano entrare in quel libro, che capisco perché sia stato dimenticato e non più ristampato. È pericolosissimo, se uno entra in quell’ottica diventa troppo buono e troppo giusto.
FP Dal punto di vista musicale i tuoi ascolti sono stati più italiani o stranieri? Prima citavi Gaber e De André, ma ci sono altri artisti italiani con cui senti una sensibilità vicina?
Direi quelli della mia generazione, posso citare Cesare Basile, Marco Parente, Alessandro Fiori, Umberto Maria Giardini, Giovanni Succi dei Bachi da Pietra. Io non sono molto dedito alla generazione precedente e successiva alla mia, perché penso che i nomi che ho citato, e non solo, abbiano fatto musica bellissima che però non ha ascoltato quasi nessuno. Io tifo la Fiorentina, quindi non posso essere insensibile davanti a questa meraviglia del perdersi e del perdere. Al di fuori dell’Italia, un gruppo veramente incredibile che è stato sottovalutato nel tempo sono i Talk Talk; sono partiti da gruppo pop e sono diventati gli antesignani dei Radiohead, anche con i dischi solisti di Mark Hollis. Quell’esperienza incarna esattamente ciò che penso io: sei giovane, poi trovi la tua posizione nel mondo, scrivi con coscienza e hai sempre una dignità infinita, poi quando capisci che il mondo è un’illusione, ed il mondo della discografia lo è ancor di più, allora ti metti a fare veramente quello che senti.
AC Ti piace ancora ascoltare musica?
Sì, specialmente di notte in macchina. Mi piace ascoltare musica ingenua, i provini che mi danno, le demo, soprattutto quelle non perfettamente a fuoco. Mi piace pensare a come potranno evolvere il loro pensiero se avranno voglia di frequentare un mondo che ha una meravigliosa passività, riuscendo a concentrarsi sul termine “meravigliosa” e non sulla passività.
AC Ti senti cambiato da quando sei papà?
Un po’, è una cosa graduale. Io sono un essere umano molto graduale, ci metto un po’ a capire le cose. È bello soprattutto per la funzione che tu hai verso questa creatura, che continua a cambiare e ti fa pensare “visto che lei cambia ogni quarto d’ora, perché non posso cambiare anch’io ogni quarto d’ora?”. È molto interessante vedere questi cambiamenti e questa capacità di apprendere le cose, alla quale normalmente un adulto abdica dopo il trentunesimo anno d’età. Quindi la sua presenza mi è servita per capire che in realtà ho la sua stessa età, dal punto di vista della volontà di apprendere le cose. Dovrebbe essere il contrario, ma è lei che mi sta dando una grande mano.
FP Gli Scisma sono stati la tua band prima dell’esperienza solista, con una breve reunion una decina di anni fa. Che valore dai, a distanza ormai di anni, a quello che hai fatto con loro? Li vedi come qualcosa di separato dal tuo percorso successivo o un punto di partenza per quello che hai fatto dopo?
Ho questo problema: mi sveglio ogni mattina pensando di non aver fatto niente fino al giorno prima. Quello è stato un meraviglioso romanzo di formazione, mi viene da pensare ai ragazzi della Via Pal, ma noi eravamo del Lago di Garda. È stato molto utile per formarci come esseri umani. La cosa divertente è che poi non è cambiata tanto la mia vita, nel cercare disperatamente di avere qualcosa da dire, perché secondo me i Benvegnù sono un gruppo come gli Scisma. Più o meno la dimensione è la stessa: io propongo delle cose ai miei compagni e poi loro le ingentiliscono. Perciò io mi sento il cantante di un gruppo. Ho sempre avuto l’ambizione che i Paolo Benvegnù fossero come i Ramones, ma evidentemente il cognome non è così figo e nel confronto perdiamo sotto tutti i punti di vista. Riguardo agli Scisma, ci tengo poi a rivendicare il fatto che siamo sempre stati avanti, infatti abbiamo fatto la reunion dieci anni prima che tutti si riunissero e tra l’altro siamo stati gli unici a non voler monetizzare…
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