Fondatore e voce dei Massimo Volume, prolifico narratore, da oltre trent’anni è protagonista del panorama musicale e letterario italiano indipendente. La sua massima preferita è di Eliot «Quello che possiamo è solo provarci, il resto non ci appartiene».
Emidio Clementi in un ritratto di Roberto Cavalli
La quotidianità quale fonte primaria di ispirazione, la passione per gli autori americani, i viaggi, Bologna, la difficoltà nel trovare una semplicità espressiva che funzioni, i sodalizi pluridecennali umani prima ancora che creativi: con Emidio Clementi, scrittore di romanzi e racconti, bassista, paroliere, autore e interprete di reading letterari musicati, abbiamo ricostruito un percorso artistico che dai primi anni Novanta lo vede impegnato in un arguto, attento, costante ed elegante intreccio di parole e note.
Emidio, cosa significa fare cultura?
Oddio… cos’è la cultura? Ti direi, Valeria, che non ho mai fatto troppe riflessioni sul fare cultura, semplicemente la scrittura e la musica sono ambiti in cui mi sono sentito subito bene, in cui ho avuto voglia di stare e di sprecarci del tempo: penso agli anni del liceo e dell’università, ero sempre a disagio, mi stufava tutto, non riuscivo assolutamente ad applicarmi su niente, ma quando poi ho scoperto la letteratura e la musica, ho trovato qualcosa in cui avevo voglia di impegnarmi.
Studiare era così lontano da me, me lo rimproverava mia madre, me lo rimproveravano i professori, poi ho scoperto che riuscivo a stare su una pagina e in studio per molto tempo, quindi, in qualche maniera, sono diventato un artista, mi sembrava che l’arte fosse l’unico ambito che mi accettasse e da cui volessi farmi accettare.
Com’è cambiato il modo di fare cultura, di viverla, da quando hai iniziato a muoverci i passi?
Standoci in mezzo non è semplicissimo capirne le trasformazioni, però se penso all’ambito musicale, alle sale prova dove tanti gruppi provavano all’epoca quando ci siamo formati (come Massimo Volume, n.d.V.), in cui sembrava che chiunque avesse un’idea creativa, voglia di fare, energia, si rivolgeva immediatamente alla musica per esprimersi, quelle stesse sale prova oggi mi sembra che siano diventate dei posti un po’ malinconici, frequentati da gente di una certa età. Credo sia cambiato il linguaggio, in questo momento la musica si fa di più a casa, non so dirti se ce ne sia meno, forse c’è meno gente a farne, ma rispetto alla fine degli anni Ottanta, all’inizio degli anni Novanta, non è più scontato che una persona con un’idea la voglia trasporre in musica.
La scrittura è un po’ diversa, più conservatrice, i suoi mutamenti si notano nel tempo: certo, un libro scritto oggi non è paragonabile a un romanzo dell’Ottocento, ma i cambiamenti dell’ambito letterario sono meno repentini.
Nel mondo culturale a cui appartieni, c’è spazio per chi non segue le mode?
Un tempo eravamo tutti molto snob. Per esempio, quando si andava a vedere un concerto sold out, si storceva il naso, bisognava essere in pochi! C’era dell’ingenuità in quel tipo di ragionamento, oggi mi sembra che sia un po’ cambiato, si confonde il concetto di indie e c’è una maggiore esposizione: anche grazie a Internet, ci sono tante comunità, più o meno di micro o grandi dimensioni, e ognuno segue quello che vuole, quando vuole. Per fare un paragone col passato, che però non vorrei troppo rimpiangere, quando è nata la moda dei videoclip, un successo si sanciva se il videoclip passava anche solo una volta, alle tre di notte, su MTV: c’era anche un’attenzione sicuramente maggiore del pubblico a quel tempo, aspettava quel momento per vederti passare. Con l’avvento di YouTube chiunque ha potuto iniziare a postare i propri video, ma è tutto diventato meno interessante, e mi sembra che ci sia anche meno gente che ci pubblichi. Questo è un discorso che si lega molto al tema del desiderio, al fatto che quando viene esaudito non soddisfa più, si inizia a rimpiangere il tempo in cui si aveva meno: forse è meglio mantenere il desiderio vivo?
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