Nel suo ultimo libro “Le grandi dimissioni” ha raccolto storie dall’Italia e dal mondo sulla crescente domanda di una nuova organizzazione del lavoro. Aumentano le proteste e cresce il numero di dimissioni volontarie a fronte di stipendi bassi e condizioni di lavoro che schiacciano le persone. È una nuova istanza politica: il tempo di riprendersi la vita.
Francesca Coin sul palco dell’Uno Maggio Taranto Libero E Pensante, foto di Simona Fersini
Francesca Coin è una sociologa che si occupa di lavoro ed è una delle poche persone in Italia ad aver scelto di occuparsene parlando coi lavoratori. Lo ha fatto a lungo per poter scrivere il suo ultimo libro Le grandi dimissioni e ne ha tratto il quadro di in Paese (e di un pianeta) giunto al momento opportuno per mettere in discussione le sue strutture industriali e sociali prendendosi cura della salute delle persone.
Cosa ti ha portato ad occuparti di lavoro?
Ho iniziato un po’ per caso quando ancora ero una studente. Il mio relatore mi aveva suggerito di dedicare la tesi al consumo di farmaci e droghe tra gli operai. In quegli anni le fabbriche erano in un periodo di crisi, fatto di licenziamenti e ristrutturazioni. Indagare la società dal punto di vista delle sue psicopatologie e del suo benessere mentale mi sembrava interessante. Mi veniva istintivo cercare di capire come si sentono le persone, probabilmente perché mi ero dovuta occupare della salute di mia madre sin da bambina. Farlo nel mondo del lavoro mi sembrava utile, perché era un tema trascurato. Già allora la sociologia indulgeva su questioni teoriche e astratte, e invece a me il dato strettamente quantitativo annoiava, credevo fosse più interessante occuparsi della salute delle persone.
Com’è stato per te l’ambiente di lavoro della ricerca e dell’accademia? Nel tuo percorso personale il rapporto con il lavoro, con l’accademia è la ricerca com’è stato?
Ho sempre avuto una relazione terribile con l’accademia. Non ho trovato un Paese in cui questo lavoro sia realmente possibile. Ho iniziato studiando in Italia alla fine degli anni Novanta e ricordo ancora che i miei primi attacchi di panico nascevano nella struttura patriarcale e gerontocratica dell’università italiana. Essere donna in quel contesto è un errore, mi sembrava sempre di essere fuori posto e di dover giustificare la mia presenza all’interno di quell’istituzione. Per questo il rapporto è iniziato male e così è continuato. Ricordo che quando mi hanno comunicato che avevo vinto il concorso per lavorare in università con un contratto a tempo indeterminato mi sembrava una catastrofe, perché ciò che mi interessava era all’esterno, dove ero allora. Avevo finito un dottorato negli USA, dove il malessere era la norma. Nel mio dipartimento docenti e studenti usavano diverse forme di medicalizzazione per reggere la disciplina dell’accademia americana, e curavano infelicità e stress con cibo, alcol o farmaci. Era difficile incontrare persone sane in quel contesto. L’aspetto positivo negli Stati Uniti era che si sentiva meno la cultura patriarcale, non a caso molte donne lesbiche e nere erano strutturate e non precarie e riuscivano a far carriera. Quando mi hanno detto che avevo vinto il concorso in Italia avevo da pochi mesi chiuso otto anni di vita negli Stati uniti e mi ero rifugiata in India, dove lavoravo come volontaria in una scuola del Tamil Nadu e studiavo lo yoga. Mi sembrava che lavorare in un contesto accademico mi togliesse la possibilità di scoprire il mondo e mi costringesse a diventare una persona che non volevo diventare: disciplinata e borghese. Penso ancora oggi che quella fosse un’intuizione corretta.
Scrivere il tuo ultimo libro è stato un esercizio catartico?
Direi di sì, è il primo libro che mi ha divertita, forse perché è stato pensato per un ambito più ampio rispetto a quello accademico o forse per il tema, di per se stesso controverso e provocatorio. Gli articoli accademici di norma non hanno grande diffusione, e spesso sono scritti male. Sembra che l’accademia insegni a scrivere male. Quest’ultimo libro mi ha divertita perché ho capito che scrivere significa comunicare, dialogare attraverso la parola scritta. E scrivere è una passione invadente, tenta sempre di mettersi al centro della tua vita.
Il libro parte dall’analisi di quanto accaduto all’estero, soprattutto in Stati Uniti e Cina. Anche in Corea del Sud aumentano le proteste contro l’attuale idea di lavoro. Sembra che proprio in Cina si siano sviluppati i movimenti più maturi come quello di Tang Ping, cioè “sdraiarsi”, mentre nel resto del Mondo sembrano essere somme di rivolte individuali. Come mai proprio in uno stato non democratico si sono sviluppati di più i movimenti?
La Cina è sicuramente un caso interessante, in cui i tentativi di dare espressione al malessere diffuso si scontrano con un governo autoritario, e forse anche per questo le loro forme espressive sono sofisticate e all’avanguardia. I nomi stessi di questi movimenti, penso al movimento degli sdraiati o a quello successivo “lascialo marcire”, dialogano direttamente con un capitalismo feroce che in questi Paesi ha portato a una rapidissima crescita in pochi decenni. In Cina per venti anni i tassi record di crescita hanno fatto da traino all’occupazione e di converso all’istruzione terziaria. Quando la crescita è crollata al 2,5% nell’anno della pandemia, e la disoccupazione giovanile è arrivata al 20%, questo ha generato una vera e propria crisi di senso in questa struttura produttiva. A che serve partecipare a un sistema competitivo che lacera le persone, se poi alla fine il premio per tanto sacrificio è la disoccupazione? “Lascialo marcire”, il nome di uno di questi movimenti giovanili, va inteso precisamente come critica al capitalismo cinese e alle sue conseguenze per la popolazione. Prendiamo il caso della fabbrica Foxconn e dei suoi circa 300.000 addetti. Circa dieci anni fa c’era stata una crescita del numero dei suicidi dei dipendenti. L’azienda è intervenuta installando una rete sotto i dormitori, per intercettare i corpi di chi tentava il suicidio buttandosi di sotto. Le reti in quella fabbrica sono state usate come forma di prevenzione. Vi sarebbero stati altri modi di intervenire, ovviamente, dato che si tratta di fabbriche-prigione senza finestre, senza luce, illuminate solo da luci al neon dove si lavora a ciclo continuo fermandosi solo per riposare nei dormitori interni. È facile immaginare che il suicidio venisse concepito in quel contesto come l’unica possibilità di exit da imperativi produttivi così feroci. I movimenti di cui parliamo sono nati dentro questo dibattito pubblico e con questo immaginario, costretti, per molti versi, anche a causa di esperienze come quella di Foxconn a interrogarsi sul senso di questo sistema produttivo, così profondamente legato al tema della morte sul lavoro o al malessere.
In un articolo di aprile sulla Stampa Tito Boeri ha lamentato uno dei problemi del mercato del lavoro italiano, che a fronte del molto lavoro disponibile presenta stipendi bassi, inclusi gli stipendi che consideriamo alti e che non lo sono rispetto a quanto accade in altri paesi. Un problema causato, dice Boeri, anche dalla ritrosia degli italiani a chiedere stipendi più alti. Sei d’accordo?
Sarebbe più corretto dire che c’è una ritrosia degli imprenditori a pagare stipendi più alti. La reazione dei datori di lavoro di fronte alle richieste salariali è, spesso, punitiva, e si collega all’idea di considerare il lavoro come un privilegio, per cui bisognerebbe essere grati a prescindere dalle condizioni. In questo contesto culturale è considerato offensivo chiedere stipendi più alti, come fosse un atto di insubordinazione. In alcuni contesti viene considerato normale ricevere buste paghe da poche centinaia di euro al mese. È difficile in Italia farsi pagare, e non per la mancanza di istanze, ma a causa della cultura produttiva e imprenditoriale.
Perché definisci l’Italia ‘la grande anomalia’ del contesto internazionale?
L’Italia ha avuto una crescita delle dimissioni nonostante l’alto tasso di disoccupati e scoraggiati, che sono circa cinque milioni. Molte persone vogliono cambiare lavoro, ma non lo fanno per paura di non trovarne un altro. Quindi la disoccupazione è un forte disincentivo all’abbandono del lavoro e nonostante questo le dimissioni volontarie sono aumentate. Questo ci dice quanto sia diffusa l’insoddisfazione in Italia.
Nel dibattito pubblico il tema arriva quando alcuni datori di lavoro lamentano la “poca voglia di lavorare dei giovani” o i presunti effetti nefasti del reddito di cittadinanza, che nei fatti non esiste più. Da un po’ di tempo, guardando alle reazioni online ad articoli su questo schema, le persone sembrano ben consapevoli dell’infondatezza di ciò. Credi che oggi i datori si stiano accorgendo del problema e dei cambiamenti in atto?
Secondo me ne sono ben consapevoli. Il combinato disposto di crisi demografica e disaffezione del lavoro fa sì che ci sia difficoltà a trattenere e attrarre lavoratori, e questo in molti settori i datori di lavoro lo sanno bene. Non c’è più la fila ed è difficile reclutare persone in diversi settori, soprattutto cercando di conciliare qualifiche richieste e offerte. Ciò che resta da capire è che costa di più reclutare e formare nuovo personale che gratificare quello esistente. È un dato di fatto che reclutamento e formazione sono costi notevoli. Tuttavia, c’è ancora molta resistenza all’idea di alzare i salari. In alcuni settori, come il settore pubblico e la sanità in particolare, bisogna chiedersi se l’esodo di personale non vada nella direzione di uno svuotamento di questi settori fondamentali. Per molti versi, svuotare la sanità pubblica è un modo come un altro di accelerare un processo di privatizzazione. C’è da chiedersi, dunque, se la politica non lascia che questo accada per scelta. Nelle aziende private, a sua volta, lasciar andare persone formate è poco sensato, ma accade comunque di frequente. È una pratica sintomatica di un mercato del lavoro sempre più malato, con pochi investimenti e un’assenza di visione del futuro. È il sintomo di un declino complessivo.
Se dovessero venir meno gli anticorpi derivanti dalle reti sociali e familiari nel capitalismo italiano, il sistema salterebbe?
È probabile, perché il modello italiano è insostenibile. Il rapporto tra salari, affitti e costo della vita in città come Milano o Roma mostra bene questa insostenibilità. Venuta meno la rete di protezione familiare, diventa impossibile galleggiare in un sistema che offre così poco e costa così tanto.
Con il governo Meloni il dibattito sul salario minimo sembra archiviato, contrapponendo ad esso il ruolo della contrattazione collettiva. Esiste davvero questa contrapposizione? Solo da esse passa il futuro dell’Italia?
Questa contrapposizione non esiste, e il salario minimo dovrebbe essere la base a partire dalla quale rafforzare il ruolo della contrattazione collettiva. Quindi si tratta di un intervento necessario, anche se non sufficiente. È indispensabile introdurre il salario minimo, dato che un lavoratore su tre è povero e in vari settori la paga è troppo bassa. Resta vero che il salario minimo da solo è insufficiente, poiché ogni risposta a una situazione di stallo durata circa trent’anni anni sarà sempre parziale. Bisogna invertire la rotta rispetto a un trentennio di disinteresse dalle politiche industriali, mentre si narrava che il problema dell’Italia fossero le tutele eccessive. Questa narrazione è stata un paravento per promuovere politiche di assalto al diritto del lavoro, che hanno abbattuto i diritti mentre consentivano di non adottare soluzioni reali. Le domande che hanno bisogno urgente di risposta sono: che tipo di futuro per l’Italia? Non lo è certo il turismo, che è un settore per definizione povero. Ma senza rispondere a questa domanda non si può uscire da questa situazione, né dotarsi di una nuova cassetta degli attrezzi.
A proposito di cassetta degli attrezzi, le donne risultano essere le più penalizzate dall’attuale mondo del lavoro, sia perché la gestione familiare resta ancora in larga parte a loro carico, sia perché gli ambienti di lavoro vedono ancora numerose forme di molestie, sia per il persistente gap salariale. Quali potrebbero essere le misure specifiche per le donne da inserire nella cassetta degli attrezzi?
Sul piano delle politiche immediatamente adottabili bisogna intervenire sui servizi per l’infanzia, il congedo parentale obbligatorio, il gender pay gap, ma tali misure devono andare di pari passo a un lavoro culturale. Le nuove generazioni sono più sensibili ai temi della disuguaglianza di genere, oltre che più preparate, ma viviamo in un Paese gerontocratico dove le nuove generazioni non hanno leve di potere nonostante il lavoro enorme che hanno svolto. Non a caso il tema delle diseguaglianze di genere è ancora un’emergenza.
In che stato versa il mondo della cultura e dei creativi secondo la tua ricerca?
È un mondo in condizione disastrosa. In Italia l’immaginario collettivo ancora pensa che l’epitome dello sfruttamento sia il lavoro operaio, e così a volte scordiamo che nel giornalismo spesso si lavora a cottimo, così come in editoria o altri settori.
Nel mondo della cultura ci sono situazioni di povertà che restano nell’ombra. Penso al mondo delle traduttrici, un settore fortemente femminilizzato, alle finte partite IVA. In troppi ambiti del mondo culturale ci sono persone di grandissimo talento costrette a competere e a fare self branding in un campo estremamente individualizzato e precario. L’attuale dibattito sulla libertà d’espressione è l’ultimo tassello di un contesto fortemente competitivo e poco tutelato, perché la libertà espressiva e di parola è sempre difficile quando mancano le tutele materiali di base in grado di consentirla.
Guardando a contesti stranieri, come quello statunitense e quello degli sceneggiatori, ci sono esempi di sindacalizzazione e movimenti di massa. Al lavoro culturale in Italia serve questa organizzazione?
Assolutamente. È difficile organizzare un mercato del lavoro individualizzato e frammentato, ma non esiste alternativa.
Qualche mese abbiamo intervistato l’autore e scrittore Ivan Carozzi, che a lungo ha parlato della neurosostenibilità del lavoro creativo. Il mondo della cultura, dice, paga più di altri l’estremo precariato e lo stress imposto ai lavoratori, e non vedendo grandi prospettive di miglioramento economico suggerisce di cambiare ‘postura’, cioè sguardo sul mondo, guardando il proprio lavoro in maniera più disincantata e ironica. Sei d’accordo?
Sono molto d’accordo sul fatto di guardare il lavoro creativo in maniera disincantata. Tempo fa, Dario Salvetti, portavoce dei lavoratori dell’ex GKN, ha spiegato che un tempo le cose erano più semplici perché ogni professione era definita operaia. I lavoratori della fabbrica erano definiti operai, i lavoratori della cultura erano definiti operai, i lavoratori della musica erano definiti operai, eccetera. Ed è più semplice chiedere tutele quando abbiamo a che fare con il lavoro operaio, perché è più difficile presentare la passione come una forma di remunerazione simbolica. Quando all’idea di lavoro operaio è subentrata l’idea di passione, la possibilità di rivendicazione è stata indebolita: lavori per passione, e vuoi anche essere pagato?
Negli ultimi decenni abbiamo sacralizzato il lavoro anche a causa di un immaginario sviluppatosi negli anni Ottanta che ha fissato il lavoro come cardine della vita e come matrice di senso. Ci sono opere e autori che hanno contribuito negli ultimi anni a invertire questo immaginario?
Sicuramente ci sono state persone che da destra e sinistra non hanno ben accoltola diffusione di una cultura antilavorista, ma nel frattempo, soprattutto nella musica, i testi contro il lavoro si sono moltiplicati, così come in altre forme artistiche sempre più autori si sono dedicati a questa narrazione.
Credo sia una questione fisiologica, una specie di reazione all’esaurimento psichico prodotto da questo modello produttivo. C’è una specie di rifiuto antropologico e prepolitico a un modello produttivo fondato sull’esaurimento delle risorse emotive e naturali delle persone e del pianeta. E bisogna passare da queste narrazioni anche per chiederci cosa significa buon lavoro oggi.
Chiudi il libro parlando della GKN come luogo di costruzione di un mondo nuovo, e allo stesso tempo vedi nelle nuove generazioni motivazione e preparazione. Tutto ciò come ti fa sentire per il futuro?
La sfida è molto difficile. Le guerre incalzano e torna persino il discorso sulla leva obbligatoria. Le crisi si sono moltiplicate. Vedo molta intelligenza e sensibilità nelle nuove generazioni, ma le sfide che dovranno affrontare sono più complesse di quelle delle generazioni precedenti. Non riesco a essere ottimista se non nel lungo periodo. Ma nel lungo periodo siamo tutti morti. Nel breve periodo, invece, credo che il punto fondamentale sia mettere in discussione una pace sociale depressiva e intossicata, in cui l’assenza di conflitto non è un indicatore di benessere ma di impotenza. E in cui il conflitto può essere pensato come una forma di cura, una cura collettiva.
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