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FOTOGRAFIA. Ha fotografato i piemontesi raccontati da Nuto Revelli ne “Il mondo dei vinti” e quelli del Sud America, la Somalia di Siad Barre e il Portogallo della liberazione, le grandi scrittrici, la politica italiana e internazionale e ancora molto altro. La definizione di “fotografa del femminismo” le sta stretta da sempre e noi proviamo a renderle giustizia.

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Paola Agosti con Honorine. Cuneo, 2015 © Giovanna Borgese

 

Che cos’è una bella foto?

Oh, per carità, è una domanda alla quale non sono assolutamente in grado di rispondere. Veramente, non ho proprio idea.

Allora mi dica quando una sua foto la soddisfa.

Bisogna considerare una cosa: ormai sono tanti anni che non faccio più foto, quindi un conto è la reazione che potevo avere quando ancora le facevo e un conto è la buona o cattiva reazione che posso avere ora, guardando le foto del mio archivio. Siccome l’ho tenuto sempre molto ordinato non ho mai delle sorprese. Questo fa sì che invidi un po’ i fotografi che non avendolo tenuto in ordine possono dire ah ma guarda cosa ho scoperto! Le mie foto le conosco, sono tante, circa 360 mila scatti in bianco e nero e 40 mila diapositive a colori. Forse le diapositive sono quelle che conosco e frequento meno.

Come si è formato il suo sguardo?

Non credo che ci sia stata una vera formazione. Sicuramente quando ho cominciato a fare questo lavoro ho guardato molto ai grandi maestri, che è quello che consiglierei di fare ancora a tutti coloro che cominciano la professione e anche ai  fotoamatori.

C’è qualche autore o autrice in particolare a cui ha guardato?

Tanti, ho molto amato i fotografi della Farm Security Administration, soprattutto Walker Evans e Dorothea Lange, mi sono molto ispirata a loro quando ho affrontato, alla fine degli anni ’70, il lavoro ispirato dalla lettura de Il mondo dei vinti di Nuto Revelli. Poi Paul Strand, Elliott Erwitt, Robert Frank, i francesi come Robert Doisneau, Willy Ronis, Henri Cartier-Bresson. Amo molto alcuni fotografi latino americani come Martin Chambi e Manuel Alverez Bravo, Graciela Iturbide, Mariana Yampolsky  e Flor Garduño e alcuni africani come Seydou Keita e David Goldblatt.

È stato importante il caso nella sua vita?

Sarà utile leggere una lettera che mio padre scrisse ad un suo amico, un editore spagnolo antifranchista che viveva a Parigi. È del 1967, l’anno in cui anche io ho vissuto là: «Ti ringrazio della pazienza che hai avuto con mia figlia, capire un figlio di ventiquattro anni non è sempre facile — si riferiva a mio fratello — ma capire una figlia di venti è per un padre quasi impossibile. Quali reali interessi abbia Paola non lo so, una volta ostentava un grande disprezzo per ogni forma di cultura, ma penso fosse un modo di affermare la sua personalità contro l’ambiente familiare — ambiente di intellettuali — nello stesso modo in cui rifiuta di leggere i libri nostri o di suo fratello. Cerca invece altre letture per conto suo, e forse fa bene. Siccome sono convinto che non manchi di una certa personalità e soprattutto perché ho fiducia nella sua lealtà, ho scelto (ma non sarà invece per viltà?) la via più comoda: lasciarla completamente libera». Questo dà l’idea non solo di che padre speciale ho avuto ma anche di come io non avessi proprio idea di che cosa fare. Sì, ero iscritta all’Accademia di Belle Arti a Scenografia, ma non mi interessava. La fotografia è arrivata per caso, perché sono capitata a Roma e ho conosciuto una fotografa milanese, Augusta Conchiglia, che stampava le sue foto presso uno studio di grafica dove io ero stata assunta come apprendista, così ho cominciato anch’io a trafficare un po’ in camera oscura. Poi insieme abbiamo deciso di aprire uno studio, dove in realtà ho sempre lavorato da sola perché lei dopo un po’ è partita per l’Africa. La nostra amicizia non si è interrotta ma il nostro rapporto professionale sì, così sono andata un po’ dove tirava il vento. Erano anni in cui questo era molto più facile di adesso.

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 15 di Awand, primavera 2025.
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Antonio Ant Cornacchia
Antonio Ant Cornacchia
Grafico, art director, giornalista. Ha studiato all'Accademia delle Belle Arti. È il fondatore e direttore di Awand. C'è chi lo chiama Ant, che sta per formica.

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