ILLUSTRAZIONE. A ventidue anni si trasferì in Francia per pubblicare i suoi libri molto prima che in Italia. Autrice molto amata, oggi è una star dell’editoria per l’infanzia in tutto il mondo. Con lei parliamo di vivere del proprio lavoro d’artista, della libertà di dire no ai committenti, della funzione pedagogica e dell’uso dei libri, della continua ricerca, delle differenze tra i Paesi, del valore della noia, dell’interazione fra testo e immagini, di magia, fantasy e molto altro ancora.

Beatrice Alemagna in un ritratto di Andrea Mantovani
Il suo è il nome evocato più volte quando, agli incontri con i lettori, chiedo quali artisti vorrebbero vedere sulle nostre pagine. Anche per questo ho insistito a lungo per arrivare a rubare un po’ del tempo prezioso di Beatrice Alemagna. Molto amata dal mondo del libro illustrato per l’infanzia, una vera star internazionale a cui sono stati assegnati alcuni dei premi più ambiti del settore (ultima la seconda medaglia d’oro della Society of Illustrators). Vive dalla fine degli anni Novanta in Francia, paese dove trovò lo spazio vitale per le sue storie e i suoi disegni, dieci anni prima di trovarlo anche in Italia, quando anche qui si sono finalmente affermati editori coraggiosi.
La leggenda vuole che tutto sia cominciato con tre disegni presentati a un editore francese e con Alemagna che parte per Parigi.
È vero. Erano disegni in rosso, bianco e nero. All’epoca trovavo molto sovversivo e affascinante l’idea di disegnare con pochissimi colori. Lo è ancora, d’altronde, perché col passare degli anni torno a cose abbandonate troppo in fretta. È interessante riscoprire i punti di partenza.
Ero affascinata da questa casa editrice, la Seuil Jeunesse, che faceva libri diversi, l’avevo scoperta più o meno nel 1996 e non avevo altro in testa che pubblicare i miei disegni con loro, andando all’estero e cambiando vita. Era già una forma di dedizione verso il mio lavoro, di abnegazione, di cui poi ho fatto un po’ le spese. Già a 22-23 anni pensavo di dover fare di tutto per pubblicare con la casa editrice che mi interessava. Ho incontrato Jacques Binsztok, l’editore francese, alla Fiera del Libro di Bologna se non sbaglio, aveva la fama di temibilissimo personaggio, molto duro, scortese e ruvido. Mi disse «Mi fai vedere tre disegni, se vanno bene puoi pubblicare».
Ansia zero...
Ansia tremenda! Immagina una che per la prima volta riesce a mostrare i suoi lavori. Però devo aver scelto bene, perché alla fine ha detto «Ci vediamo in casa editrice». Da lì la decisione di trasferirmi e di cambiare vita per il lavoro.
È un viaggio che rifaresti oggi?
Sì, sicuro. Lo dico senza presunzione, è un viaggio che mi ha portato molto più lontano di quanto io pensassi e all’epoca era un viaggio molto meno semplice di quello che sarebbe oggi.
Era una necessità quella di andare in Francia per fare il lavoro che desideravi?
Per me sì, per poter pubblicare. Vedevo il panorama editoriale italiano di allora, le storie del coniglietto nella stanzetta, quelle cose per accompagnare il bambino al sonno... Mi angosciavano terribilmente. Io volevo tentare — con moltissima presunzione — di rinnovare il libro per bambini. Volevo spaccare tutto e dimostrare che c’era un altro modo di parlare ai bambini. Non lo vedevo in Italia e ho pensato che la mia strada fosse altrove. Infatti ho pubblicato in Italia solo dieci anni dopo che in Francia.
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