Con Shame culture portano in scena le ansie e i problemi degli studenti universitari vittime delle pressioni sociali, amplificate dall’esposizione continua sui social. L’amore per un lavoro difficile e bellissimo da fare come collettivo: «Un grande investimento perché la vera forza, il vero futuro sta in questo. Non è possibile che stia nella solitudine, nel singolo, nel dispositivo e nella non-presenza. Il futuro deve ripartire dall’unione.»
Vincenzo Grassi, Marco Fanizzi e Anna Bisciari in Shame culture, foto di Manuela Giusto
Asilo Republic è un gruppo teatrale. Una attrice, Anna Bisciari, due attori, Marco Fanizzi e Vincenzo Grassi, e un regista, Andrea Lucchetta. Da pochi anni hanno completato gli studi presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma, tutti nella stessa classe. Non hanno ancora varcato la soglia dei trent’anni e nel 2018 hanno deciso di mettersi insieme, scegliendo il titolo di una canzone di Vasco Rossi come nome, per quell’idea di gioco, di primi passi e allo stesso tempo di rifugio che asilo dà al loro lavoro e republic al loro essere collettivo. Li abbiamo incontrati nelle settimane di presenza nel cartellone dell’Elfo Puccini di Milano, dove hanno presentato in successione due spettacoli, così lontani così vicini. Uno è L’isola di Arturo, dal libro di Elsa Morante, e vede in scena solo Vincenzo Grassi. L’altro è Shame culture, una loro drammaturgia nata da una ricerca fra gli studenti universitari innescata da una notizia di cronaca; vede in scena tutti e tre gli attori e fa ricorso a proiezioni, musiche e riprese live con il telefonino e con il computer.
Quali sono i vostri percorsi, come siete arrivati al teatro?
Marco: Io sono alto un metro e novanta, volevo fare il portiere di calcio ma il provino al Taranto Calcio è andato male. Ho visto dei volantini per la città che pubblicizzavano corsi di teatro, mi sono detto va beh proviamo. Il primo anno è stato molto strano ma già dal secondo ho capito di volerlo fare per sempre.
Andrea: Io ho cominciato davvero molto piccolo, quando a teatro mi portavano i miei genitori. A circa 10-11 anni ho iniziato a frequentare i corsi del teatro Diana di Napoli. Diventato un po’ più grandicello con alcuni amici del corso abbiamo formato una piccola compagnia amatoriale. Subito dopo il liceo ho avuto la fortuna/sfortuna di entrare alla Silvio D’Amico dove ci siamo conosciuti tutti e quattro e, più o meno dal 2018, abbiamo iniziato a lavorare insieme.
Anna: Avevo fatto dei corsi a scuola e a 18 anni, quando mi sono resa conto di dover scegliere cosa fare nella vita, ho pensato o faccio psicologia o faccio l’attrice. Una grafologa messa a disposizione dalla scuola mi ha detto «Tu non puoi assolutamente fare la psicologa, ti annoieresti troppo, segui il teatro». La ringrazio ancora perché, ora posso dirlo, è davvero la mia passione ma non avevo mai avuto il coraggio di dirmelo prima. È stata un po’ una scelta inconsapevole, ho seguito qualcosa che non sapevo nemmeno cosa fosse davvero in realtà, vivevo a Urbino e non è che ci fosse chissà quale vitalità teatrale.
Vincenzo: Anche io ho iniziato con i corsi-laboratorio delle scuole, poi è diventato un hobby con una compagnia amatoriale a Gallipoli. Al liceo scientifico pensavo di tentare i test di ammissione per medicina o ingegneria, non sapevo bene quale fosse il mio fuoco, la mia vocazione. Il teatro era però in qualche modo un posto in cui le cose mi venivano meglio, così ho deciso di farne il mio lavoro. Sono andato a Roma, prima ho frequentato una scuola di recitazione, Teatro Azione, e poi a 21 anni sono entrato in accademia.
Abbiamo capito che, chi più chi meno, ci siete arrivati per caso, ma cosa vi piace così tanto, cos’è che sentite vostro del teatro?
Anna: Soprattutto lo scambio. Ho fatto pallavolo per dieci anni e per me il lavoro di squadra è la cosa più bella che esista. Noi alla fine siamo una squadra, ci facciamo l’alzata, l’attacco, ci facciamo dei passaggi... il nostro modo di stare in scena è una partita continua, ma senza la componente che non mi piace dello sport, la competizione. La bellezza del teatro è questa, il dare e ricevere continuo, il comunicare, lo scambio, tra di noi e con il pubblico.
Andrea: ho avuto la fortuna di crescere attraversando diverse comunità come la scuola e i collettivi politici, e nel teatro io vedo una comunità all’interno della quale affrontare emozioni, temi, storie. Uno dei rari momenti fondamentali in cui ritrovarsi insieme.
Vincenzo: Con il tempo probabilmente la mia risposta potrebbe cambiare, intanto per me il teatro è un luogo di crescita, di introspezione e di rapporto con l’altro. In qualche modo i personaggi che interpreto cambiano poi me, mi arricchiscono. Se questa cosa dovesse finire, forse sarà il momento di lasciare questo mestiere.
Marco: Per me il teatro ha a che fare con un desiderio che ho fin da bambino, di essere invisibile, cioè di guardare non guardato. Il teatro — non da subito, con il tempo — mi ha insegnato che potevo espormi invisibilmente. Sul palco tutti ti vedono ricoperto di strati di abiti, invece sei lì senza nessun vestito addosso e questo ancora accende e alimenta il mio fuoco per il teatro.
Andrea: Svegliarsi la mattina, avere la possibilità di prendere il testo di un grande autore, Euripide, Shakespeare, De Filippo, una drammaturgia contemporanea, un testo inedito... ragionare sull’umano che c’è in quel testo, parlarne insieme, è uno dei lavori più belli del mondo, aiuta la crescita personale e la comprensione del mondo, ad avere occhi più critici e più sensibili.
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