DISEGNO. Tra la Russia e l’Italia ha studiato arte tanti anni, ma oggi quando disegna «Cerco di entrare in uno stato di trance: meno ho controllo, più mi piace il risultato». L’amore per il cinema e per Bologna, il rapporto con gli editori e il blocco creativo causato dalla guerra.
Victoria Semykina in un ritratto di Marco Sadori
Victoria Semykina è un’illustratrice russa — è nata a Mosca nel 1980 — ma da quindici anni vive a Bologna. Ha lavorato, tra gli altri, per Penguin, Anderson Press, Walker Books, De Morgen, Oxford University Press, Bonnier. In Italia ha illustrato tre libri, due dei quali scritti da Luca Tortolini: La città nascosta per le Edizioni Corsare, e François Truffaut. Il bambino che amava il cinema, per Kite Edizioni, in cui ha potuto dare spazio al suo amore per il cinema e con cui ha vinto il premio Andersen nel 2021 e il Grand Prix Nami Concours in Corea. Sue sono anche le tavole per Anni and Bert: A Weaving Story, scritto da Emily Hall per il MOMA e dedicato ai coniugi Albers, e di The real boat, scritto da Marina Aromshtam per Templar Publishing. Il suo cognome — l’inchiostro se ne farà una ragione — si pronuncia Semìchina.
Qual è il tuo primo disegno che ricordi?
Questa è una storia che fa molto ridere: sono nata a Mosca, in Russia, e la maggior parte della gente lì è bionda con gli occhi azzurri. Io invece ho gli occhi neri e quando ero piccola erano ancora più grandi di adesso, e molto neri; la gente per strada, per scherzare, mi diceva sempre la stessa identica battuta: «Come mai non hai lavato i tuoi occhi?». Mi facevano impazzire! Così, a 4-5 anni, ho fatto tantissimi autoritratti con gli occhi azzurri dicendo «Io sono bionda, sono una principessa con gli occhi azzurri».
Che rapporto hai avuto con la scuola?
Sono stata fortunata con gli insegnanti, davvero bravissimi. I miei genitori invece… sempre presi da mille cose. Quando chiedevo aiuto, la risposta era più o meno: “Certo, tesoro… arrangiati!” Così ho studiato da sola come una piccola eremita dello studio. Per fortuna già sapevo disegnare bene: quindi quando l’inglese mi faceva disperare, inventavo poster dipinti tipo “this is a cat… behind, above…” e voilà, sopravvivevo.
E poi con la scuola d’arte, com’è andata?
Ho fatto tantissimi anni di formazione, forse troppi, ho cominciato quando avevo 8 anni.
Oltre la scuola elementare e media frequentavi anche una scuola d’arte?
Esatto. È stato molto bello e divertente perché abbiamo sperimentato un sacco, c’era tanta libertà, potevi fare pittura, scultura, ceramica, tappeti, qualsiasi cosa. Poi ho deciso di frequentare il liceo artistico. In Russia ci sono due scuole di altissimo livello, una a Mosca e una a San Pietroburgo, dove è molto difficile essere ammessi. Dopo ho fatto 6 anni all’Accademia di Belle Arti e infine ho studiato a Bologna.
Cosa è stato più difficile imparare?
Oh, tutto, naturalmente. A Mosca studiavamo pittura murale con un impegno… come dire, maniacale: il Rinascimento — Botticelli, Giotto, Michelangelo — e poi i muralisti contemporanei, architettura, ambiente… insomma, roba da farti dubitare della sanità mentale. Per gli affreschi servivano disegni di figura dal vivo, spesso più grandi delle dimensioni reali, pezzi di carta lunghi due metri per tre. Davvero durissimo. Ma ora devo ammettere, utile sì, anche se allora pensavo che fosse una specie di tortura elegante. A Bologna, l’Accademia era meravigliosa, professori bravissimi… ma il vero ostacolo? Scavare nella loro conoscenza, estrarre le pepite nascoste tra un “sì, vedi tu” e un sorriso enigmatico. Come una caccia al tesoro.
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