MUSICA. È tornato sui palchi con gli Offlaga Disco Pax «Non essendoci realtà musicali identitarie oggi, chi ne ha bisogno le trova nel passato. Se le canzoni che escono oggi non hanno una forma di riflessione collettiva ma solo individualista, è perché la società è così». «Penso che la persona che mi ha più condizionato e spinto ad iniziare a scrivere sia stato Paolo Nori»
Max Collini in una foto di Francesca Sara Cauli
Partirei dall’attualità, ossia la reunion degli Offlaga Disco Pax. Cosa ha spinto te e Daniele Carretti a mettere in piedi questo tour? Vi aspettavate questa reazione da parte del pubblico, con una serie di sold out?
Ci ha spinto il fatto che sono molti anni che non suoniamo le nostre canzoni. Io non ho mai affrontato il repertorio degli Offlaga nei vari progetti che ho fatto in questi anni, ad esempio Spartiti con Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò. Lo stesso per Daniele. Hanno cominciato a mancarmi quelle canzoni. Inoltre, con l’arrivo del ventennale di Socialismo Tascabile ho pensato che fosse il momento per celebrare il disco risuonando dal vivo le canzoni che lo componevano. Non era comunque scontato che Daniele fosse d’accordo con me, ma lo era, e ancor meno scontata era la risposta del pubblico. Stiamo facendo dei numeri in questo tour che non sono quelli che facevamo 15 anni fa, quando eravamo in auge. Probabilmente avevamo sottostimato quello che è successo nei dieci anni in cui il gruppo è rimasto inattivo, dopo che il destino ci ha portato via Enrico Fontanelli. A quanto pare, in questo lasso di tempo siamo riusciti a raggiungere un pubblico nuovo, grazie alle piattaforme o al passaparola o ai fratelli maggiori che ci hanno passato ai minori. Non siamo riusciti a darci una spiegazione definitiva di questo, ma di fatto il nostro pubblico oggi è molto maggiore rispetto a quello di 15 anni fa e questo mi ha davvero lasciato esterrefatto.
Il pubblico è composto anche da persone più giovani, venti/trentenni? Vi siete chiesti come avete raggiunto questa fascia d’età, che non sembrerebbe interessata a temi come i vostri, stando alla narrazione dominante?
Sì, ci sono anche dei ragazzi che per evidenti motivi anagrafici non ascoltavano Socialismo Tascabile quando uscì, erano appena nati oppure al massimo andavano alle elementari. Sono molto incuriosito da questa cosa. Certo, sono una quota minoritaria rispetto ai lupi grigi, ai quarantenni che sono il nostro pubblico di riferimento, però ci sono. Mi sono dato questa spiegazione: non vedo in musica proposte molto identitarie dal punto di vista sociale, chi partecipa a movimenti come Fridays for Future o Ultima Generazione non trova nelle proposte anche alternative dei contenuti che li facciano sentire parte di qualcosa, quindi li vanno a cercare altrove, ad esempio nei cantautori storici o, per chi ha voglia di scavare nell’underground, negli Offlaga Disco Pax ad esempio. In definitiva, non essendoci realtà musicali identitarie oggi, chi ne ha bisogno le trova nel passato.
Come ti poni nei confronti delle rivendicazioni della generazione attuale, che sono cambiate rispetto a quelle della tua che raccontavi nei tuoi testi?
Penso che sia sano che i giovani d’oggi abbiano rivendicazioni diverse rispetto a quelle che avevo io trenta o quaranta anni fa, è il minimo sindacale. Non amo poi fare il paternalista o il boomer, quindi penso che queste rivendicazioni siano assolutamente da prendere sul serio, che siano più contemporanee, giustamente, delle mie, e che sia inoltre controproducente sottovalutarle. Temo infatti che questi giovani, se non troveranno in Italia una società che li ascolti e che li realizzi, andranno a farlo da un’altra parte e lasceranno questo paese ai vecchi. Se fossi un politico lungimirante, credo che andrei a cercarmeli questi ragazzi, ma vedo che non lo fa nessuno. Sono pochi e contano poco elettoralmente, ma sono il futuro, anche se sembra retorico dirlo.
Dicevi prima che per i giovani è difficile trovare proposte musicali “impegnate”, anche nel mondo che viene indicato attualmente come indie. Un tuo motto più o meno scherzoso è “Anni Zero, Indie Vero”. L’indie quindi non esiste più? O il problema è l’uso che si fa del termine?
In Italia chiamiamo indie quello che nel resto del mondo chiamano pop. Parliamo in sostanza di gruppi che hanno fatto successo annacquando i contenuti. Secondo me i fenomeni più interessanti sono quelli che, senza snaturarsi, riescono a dire delle cose non necessariamente autoriferite come invece fa gran parte degli autori ora. Io penso che le canzoni siano lo specchio della società: se le canzoni che escono oggi non hanno praticamente mai una forma di riflessione collettiva ma solo individualista, è perché la società è così. Il cantautore o chi fa le canzoni non è alieno dalla società. È anche più difficile fare cose che risultino poco retoriche, perché c’è un cinismo imperante, si corre il rischio di essere troppo retorici affrontando certi argomenti di respiro sociale. Mi piace molto ad esempio il modo di scrivere che ha Lucio Corsi, proprio perché antiretorico e personale; non ha annacquato la sua proposta andando a Sanremo e gliene va dato atto. Lo stesso vale per Brunori, che è un cantautore classico, ma che riesce a inserire nelle sue canzoni dei contenuti, cosa che non esiste quasi più.
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