FOTOGRAFIA. «La vera gratificazione è quando un’immagine riesce a resistere nel tempo ed entrare in un immaginario collettivo stabile». «Sono fiduciosa che opteremo per un approccio ecologico anche in questo campo, perché da qualunque parte la si guardi la grande abbuffata sta finendo. Ci dirigiamo verso un’inversione di tendenza che spero favorisca la qualità a discapito della quantità».
Claudia Pajewski, Il Ministero della solitudine, Lacasadargilla, Roma, 2022 (dettaglio)
Claudia Pajewski non è una novità su queste pagine. I lettori più attenti ricorderanno il suo bellissimo ritratto di Teho Teardo sul numero 3. È da allora che covavamo l’idea di dedicarle attenzione. La sua scheda biografica ci dice che è fotografa e artista visiva, che collabora con case discografiche, redazioni, aziende, fondazioni, enti culturali e teatri. È nata a L’Aquila nel 1979, a metà degli anni Duemila entra nel circuito romano Phag Off, tra i primi esperimenti italiani di controcultura queer. Collabora con Drome e Repubblica XL e in seguito con etichette e musicisti italiani tra cui Motta, Nada Malanima, La rappresentante di lista, Teho Teardo. Per il teatro è fotografa ufficiale di Teatro di Roma e Short Theatre Festival.
Com’è arrivata la fotografia nella tua vita? Nell’ambiente in cui sei cresciuta c’era una particolare attenzione all’immagine?
Da bambina ricordo una istantanea Polaroid e una Yashica automatica. Attrezzature semplici con poche funzioni, perfette per lə bambinə. Ho scattato le prime foto con gli amichetti del cortile, le percepivo come dispositivi magici per tenere vicino le persone a cui volevo bene, anche nell’assenza. In questo percorso non credo ci sia nulla di speciale, semplicemente i miei vasi comunicanti convergevano verso l’intelligenza visiva: sfogliavo favole, enciclopedie e riviste unicamente per guardare foto e illustrazioni. Provengo da una famiglia con un approccio scientifico, padre ingegnere, madre biologa, tolti i dispositivi tecnici non posso dire ci fosse una peculiare attenzione all’immagine.
C’è un confine fra il tuo essere fotografa e l’essere artista visiva?
Se c’è un confine è nel metodo. Lavoro da vent’anni come fotografa professionista, prevalentemente nell’ambito dello spettacolo. In questo caso il mio sguardo è al servizio di altrə artistə, ne valorizzo i progetti. Quando ci sono le giuste variabili nascono anche collaborazioni gratificanti, come con Francesco Motta con cui ho collaborato per più di un decennio. Nell’ambito dell’arte visiva costruisco invece i miei mondi. La fotografia può diventare il perno di altri media a seconda della narrazione che ho urgenza di restituire. È uno spazio di libertà, un modo per entrare in contatto con me stessa. Produco pochi lavori a cicli lunghi, Le mani della città per esempio è diventato libro dopo più di tre anni di ricerca.
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