Regista e autrice, il suo primo lungometraggio, Animali randagi, è arrivato dopo tanti documentari, cortometraggi e televisione «Venendo da una famiglia assolutamente non borghese, odio il “porno-poveri”, quel voyeurismo di chi è borghese e va a guardare i poveri, ma in cui i poveri non si raccontano mai.» «Il cinema e il set sono ancora tanto da maschi. Se un uomo fa il pazzo è uno che ha personalità. Se una donna mette i puntini sulle i è una rompicoglioni.»
Quella di Maria Tilli è una delle voci più interessanti fra i giovani registi italiani. Dopo una gavetta nella televisione e una crescita importante nel documentario, nel 2024 ha girato Animali randagi, suo primo lungometraggio di fiction. Con lei abbiamo riannodato il nastro del suo percorso, con uno sguardo rivolto al futuro.
Cominciamo dal tuo esordio. Nel 2011 giri nei luoghi dove sei cresciuta il cortometraggio “Senza aggiunta di conservanti”.
Mi ero trasferita a Roma per l’Università e avevo sempre avuto il desiderio di iscrivermi al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma non avevo ancora mai girato niente. Nei miei primi mesi nella capitale avevo conosciuto al Cinema Azzurro Scipioni Silvano Agosti, con cui eravamo diventati amici e che mi aveva sempre dissuaso dall’iscrivermi al CSC. “A 19 anni non hai niente da dire: prima vivi qualcosa e poi lo racconti”, mi diceva. E io lo avevo ascoltato. Un suo grande regalo fu anche farmi conoscere e intervistare Mario Monicelli, in occasione della presentazione delle Rose del deserto. Anni dopo, mentre lavavo i piatti, ascoltai in radio l’annuncio che di lì a pochi giorni scadevano i termini per l’iscrizione al CSC e per l’ammissione occorreva presentare un cortometraggio. Chiusi il rubinetto del lavandino e mi venne in mente l’immagine, ripescata da qualche angolo dell’inconscio, di alcune signore anziane che facevano la salsa. Era una immagine che da piccola mi sembrava quasi trasgressiva, losca, con queste donne che si alzavano nel cuore della notte per compiere una sorta di rito. Sono nata nelle campagne di un piccolissimo paesino abruzzese, Casoli, in provincia di Chieti. Tornai lì per girare il corto, le signore che scelsi abitavano tutte dietro casa mia. Insieme ad un amico che aveva la telecamera comperammo quindici euro di pomodori e chiedemmo alle signore di lavorarli. Fu veramente magico perché la signora che parla di più, Carmela, che all’epoca aveva novanta anni, sembrava fosse stata tutta la vita davanti a una telecamera, tanto era a suo agio. Al Centro mi presero subito, il corto fu proiettato anche a New York e credo ne fu apprezzata la tenerezza, l’ironia, il racconto di una vita fatta di sacrifici, molto impegno e poche soddisfazioni come quella contadina.
Come è avvenuto il tuo primo contatto con il cinema in un paese così piccolo?
Ricordo un cineforum alle medie in cui vidi Il colore viola, ma più banalmente a casa misero la pay tv e guardavo un sacco di film. Mia madre mi racconta che ne vedevo anche tre o quattro al giorno, era una sorta di rifugio. Mio padre poi è maestro di musica. Era stato direttore d’orchestra e io lo seguivo quando faceva le piazze in giro per l’Italia. Forse anche quello mi ha portato alla dimensione del cinema, di essere spettatore di qualcosa.
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