Il più importante dei disegnatori satirici italiani racconta la sua formazione, la relazione-non-relazione con le redazioni e la politica, le ispirazioni. Come sono nati il Cavalier Banana e l’ombrello, il metodo di lavoro e il rapporto con social e comunicazione digitale.
Francesco Tullio Altan in un ritratto di Marcos Chaves
Nel gennaio del 2018, invitato dall’associazione Novaluna, intervistai sul palco del Teatro Binario 7 di Monza Francesco Tullio Altan e Elio De Capitani. Di quest’ultimo trovate l’intervista qualche pagina più in là, qui riporto le risposte del più fulminante (e importante) dei disegnatori satirici italiani. Nonostante la fama di taciturno che lo precede, l’autore di Cipputi e della Pimpa vi ripercorre generosamente la sua formazione, la sua non-relazione con le redazioni e con la politica e tanto altro; senza mai usare una parola di troppo, proprio come i suoi personaggi.
Nella trascrizione non ho voluto eliminare tutte le imperfezioni verbali del dialogo, per preservarne la spontaneità e vivacità, se ne tenga conto.
Quando hai capito che quello che fai sarebbe stato il tuo mestiere?
Avevo 24, 25 anni. Facevo disegni non proprio come quelli che faccio adesso ma simili, per un gruppo di compagni dell’università. Qualcuno ha proposto di mostrarli a qualcun altro, e per strade casuali ho pubblicato le prime cose. Ma a quell’epoca non ho mai pensato che fosse un mestiere, lo è diventato un bel po’ più tardi. Hanno cominciato a pagarmi, e poi ho cominciato a dover fare le cose perché dovevano pagarmi le cose perché dovevo pagare le cose, allora lì diventa un mestiere. Però lo facevo fin da bambino.
Parliamo del segno grafico: mi sembra che tu abbia fatto un lavoro per levare, per sottrazione.
Sì, credo che alla fine sia quello grafico che quello sul testo sia un lavoro che segue questa strada. Meno di così non riesco a fare perché sennò scrivo una parola, mezza, diventa difficile da capire. Però ho sempre notato che l’efficacia di queste cose veniva dalla sintesi, dalla capacità di restringere un concetto nel minimo numero di parole possibile. Sono cresciuto e ho fatto tutte le scuole a Bologna, poi ho trascorso sei anni in Brasile. Io andavo al cinema a Bologna solo per sentire cosa dicevano gli altri, nessuno era interessato a quello che si vedeva sullo schermo, ma c’era una serie di battute assolutamente straordinarie, quello sicuramente è un imprinting che ho avuto. A Rio, poi, i carioca sono dei battutari con una capacità di sintesi straordinaria, la loro è una lingua che si presta a dire tutta una cosa complicata con una parola o due. Quelli secondo me sono stati i filoni che mi hanno influenzato di più. Poi ovviamente ci sono le esperienze personali e le letture.
Il Brasile significa anche tua moglie Mara.
Ho conosciuto Mara nel ’70, ero a Rio per preparare un film per un amico che faceva il regista per la Rai. Io c’ero già stato un anno prima per un altro lavoro, avevo imparato la lingua e allora mi ha mandato avanti per organizzare questa cosa. Dovevo scegliere anche i tecnici e le persone. Il direttore di produzione mi ha presentato una costumista che era lei e che non sapeva che io parlavo portoghese. Gli ha spiegato il tipo di lavoro da fare e lei ha detto “Questo lo faccio con le mani dietro la schiena”, io ho detto “Va bene” e l’ho assunta, e da lì in poi sono 47 anni che siamo insieme (ora sono 50, Ndr).
Come scatta la scintilla creativa, cos’è che innesca la battuta?
Ho cominciato a fare questi disegni con il testo quando ho letto le prime cose di Jules Feiffer, e saranno stati gli anni ’60. Mi aveva colpito la capacità di dialogo che lui stabiliva tra il suo personaggio e chi stava leggendo, chi stava vedendo il libro; queste figure rivolte verso il lettore a cui parlavano. Ho detto “Provo anch’io questa strada”, e lì ho cominciato a fare disegni con i testi. Ma era tutta una cosa molto diversa perché il discorso di fare satira politica o di costume, mi è stato un po’ indotto da Gualtiero Zanetti, che era il direttore dell’Espresso. Gli ho mostrato quest’altro tipo di disegni che facevo, un po’ esistenziali un po’ surreali, e mi ha detto “Perché non provi?”. Io ho provato ma non sapevo molto di politica, per questo ho sempre avuto un certo rispetto, questo approccio un po’ di lato. Non sono mai stato dentro a queste cose, non ho informazioni come può avere chi lavora dentro ai giornali, quelli che sanno sempre cose che poi non scrivono ma sono convinti di sapere. Io mi baso sulle informazioni che avete tutti voi, che abbiamo tutti noi che leggiamo i giornali. Quindi sono sicuro che quello di cui io parlo si sa cos’è, perché non parlo come un retroscenista, “So io ma voi non sapete, ve lo dico e se mi credete bene”. No, io sto parlando di cose che abbiamo tutti letto sui giornali o visto in televisione il giorno prima o un mese prima, perché non lavoro molto sull’immediatezza, perché ho bisogno di digerire le faccende, o che si accumulino. Oggi ho fatto una vignetta che parla delle promesse, perché sono quindici giorni che io sento questa parola in tutti i momenti, dappertutto, — io prometto, loro promettono… — e quello è l’aggancio che mi fa scegliere quell’argomento. È un problema di attenzione, bisogna stare molto attenti alle stonature, alle campane rotte: lì c’è qualcosa; probabilmente si può correggere il punto di vista, cioè spostare la camera e guardare le cose di lato, così delle volte scopri una cosa che non si vedeva bene.
Proviamo a dare una definizione quanto più sintetica possibile di “satira”. Partiamo da una cosa detta da Gipi: l’unica regola della satira è che deve andare dal più debole a colpire il più forte. Ti ci riconosci?
Questa è una legge basica come quelle della termodinamica, però c’è la parola “colpire” che secondo me non copre tutto il discorso. C’è una satira aggressiva che tende a colpire e sminuire l’avversario, ma secondo me ce n’è un’altra, che io preferisco, che non riguarda tanto quegli obiettivi, ma riguarda noi: quei signori di cui ci occupiamo, di solito li ha messi lì qualcuno.
Tu raramente disegni personaggi, gli “eletti”, il più delle volte sono gli elettori i protagonisti delle tue vignette.
Sì perché secondo me il nocciolo sta lì. Io ne ho disegnati solo tre: prima Andreotti, poi Craxi, e poi il signor Berlusconi. Crescendo a Bologna andavo allo stadio a vedere i piloni, perché c’era un punto del campo che stando seduti non si vedeva, si vedeva il giocatore che entrava di qua, usciva di là e nel mezzo c’era il pilone, e per me lui era così: io potevo pensare ad un’altra cosa ma c’era sempre lui, il pilone lì, e bisognava occuparsene per forza insomma. Però mi interessa di più mettere in discussione anche me stesso, perché non è che io me ne tiri fuori. Siamo noi che decidiamo chi sta in quel posto, chi decide per noi eccetera. Quindi la colpa, se c’è una colpa, dobbiamo prendercela in carico anche noi. In quel senso, di satira, secondo me ci sono tanti tipi.
Come nascono i grandi tormentoni di Altan? Il Cavalier Banana, l’ombrello.
L’autore iniziale del Cavalier Banana è Gianni Agnelli, perché alle prime elezioni che Berlusconi ha vinto, lui ha detto “No, questo non va avanti perché questo non è il paese delle banane”, allora ho detto “Non è il paese delle banane, è il paese del Cavalier Banana”. Mi è piaciuta. Mi veniva comodo anche perché fare le caricature non è il mio mestiere, mentre con la banana si capiva subito chi era. L’ombrello invece è uscito per la prima volta su Tango, che era un inserto dell’Unità che dirigeva Sergio Staino. La prima riguardava un momento di mancanza di governo e qualcuno parlava di incarico esplorativo.
C’è qualcosa che, per principio, deve restare fuori dalle tue vignette?
Per principio no, ma ci sono argomenti o situazioni in cui non mi viene da avere questo atteggiamento un po’ di distacco che è necessario.
O sono cose che ti colpiscono troppo, o sono argomenti in cui per muoverti sicuramente fai danni, perché troppo delicati. Una cristalleria dove qualsiasi cosa si dica o si faccia crea danni seri da altre parti. Quello mi toglie il buonumore e quindi mi toglie la voglia di occuparmene insomma.
Ridi delle tue vignette?
Rarissimamente, ma dopo tanti anni. Perché il problema è che io quando vado a rivedere le vignette dopo tanto tempo, delle volte vedo che è cambiato pochissimo.
Sono dei classici.
No, non sono dei classici, siamo noi che non ci muoviamo.
Quanto conta il contesto? La testata su cui pubblichi influisce su quello che fai?
No, io ho iniziato a pubblicare regolarmente su Linus, dove la testata contava nel senso che potevi fare veramente quello che volevi, poi su Panorama — da cui sono andato via quando è arrivato Banana — e ancora dopo su l’Espresso e la Repubblica, dove c’è un modo di vedere le cose e di pensare su cui io mi posso trovare fondamentalmente d’accordo insomma; anche lì senza rapporti col giornale, non è che mi chiamano come altri colleghi che fanno le cose tutti i giorni ed hanno per forza dei rapporti con la redazione, col direttore che dice “Ci dovremmo occupare di questo e di quell’altro”, io così non potrei lavorare anche perché ho le mie cose per i bambini, non ho il tempo di stare lì tutti i giorni a risolvere quel problema. In più come dicevo prima per me l’attualità stretta arriva troppo in fretta, non ho tempo di avere le reazioni di pancia che ci vogliono in queste cose, sarebbe tutto molto razionale, quindi poco vignetta.
Parliamo del tuo rapporto col Cavalier Banana. Ho letto che avresti più volte preferito non doverlo più disegnare.
C’è una vignetta recente, c’è un signore seduto con un cane con una banana che gli salta sul ginocchio, e lui gli dice “Basta Fuffi”, questa è la sensazione. Purtroppo siamo in una situazione così bloccata, così stupida in un certo senso, che è ancora lì. È difficile.
Leggevo un articolo di Oliviero Ponte di Pino, che parlava di studi recentissimi che dicono che i più portati a condividere contenuti che poi si rivelano essere fake news, panzane, sono persone istruite. Uno è portato a pensare che sia gente non preparata, e invece no. Quand’è che abbiamo perso fiducia nella credibilità, nell’autorevolezza.
Io sono convinto che c’è molta gente che è stata istruita, ha fatto un buon liceo, magari anche qualche buon anno di università, poi si è dimenticato che bisogna istruirsi tutti i giorni. E quindi quando l’istruito è di regresso
è terribile, perché crede di capire tutto, perché ha le cose basiche per capire tutto, ma non sa più metterle insieme, per cui probabilmente è per questo che è convinto di aver capito una cosa e di poterla riportare, trasmetterla con la sicurezza che sia vera, o che valga la pena di farlo.
Su questo pesa la velocità, la superficialità a cui ci sta abituando la comunicazione digitale.
Sicuramente sì ma soprattutto perché è una forma di accumulazione rapidissima di peso delle cose, perché una cosa sola non vale niente, se la ripeti dieci milioni di volte in mezz’ora ci si convince.
Disegni cose per te stesso, che nessuno vede poi pubblicate?
Lo facevo da giovane, adesso non ho più quelle energie. Quando ho fatto il mio compito sono già contento.
Quanto tempo prendono il lavoro sulle vignette ed il lavoro sulla Pimpa?
Le vignette sono molto rapide da fare, una volta che uno ha avuto l’idea il disegno è una cosa molto veloce. La Pimpa ha bisogno di più tempo, a parte l’inventarsi le storie.
Fai tutto da solo?
Sì. Ho provato a volte a studiare l’idea di avere una collaborazione ma poi mi vedevo con uno che stava lì e aspettava che io gli dicessi qualcosa, ma non sapevo cosa. No, ho detto, “meglio fare questa fatica in più”. Perché non è un lavoro così sistematico, non saprei cosa dirgli. In certi momenti sarebbe utilissimo ma avrebbe dovuto allenarsi prima a fare certe cose e io non ci riesco, finirò da solo.
Anche la colorazione?
La colorazione delle vignette adesso la faccio al computer che è una questione veloce anche quella. Conosco le poche tecniche che mi bastano, poi ho dei manuali ma preferisco di no, come preferisco non metterli sui social.
Infatti, stavo per chiedere, che rapporto hai con i social?
No io uso internet per leggere il giornale, per sapere un po’ di notizie ma non sono mai entrato in quell’altro filone perché mi sembra una cosa che ha bisogno di un’attenzione che non ho più.
In Sergio Staino si sente molto forte il suo senso di appartenenza ad una storia (quella della sinistra, del PC poi DS, poi PD). Tu ti riconosci in qualcosa di simile? Senti di appartenere a qualcosa che viene da lontano, o a qualcosa di nuovo?
Sergio Staino ha veramente una storia diversa dalla mia. A parte che anche lui ha avuto il suo periodo leninista, marxista, filocinese e tutto, è andato in Albania a fare la guida, però poi è tornato perché è una persona molto saggia. Io sono arrivato un po’ dal di fuori in questa corrente, attraverso circuiti un po’- mi è successa la stessa cosa anche personalmente, sono stato più coinvolto, e mi sento parte di una tradizione, anche se io non c’ero prima di questo. E difatti il mio grosso problema adesso è di riuscire a tenermi sempre da una certa parte perché sono convinto che anche il discorso della satira fatta a 360 gradi non ha senso, se sei contro qualcosa sei anche a favore di qualcosa d’altro. E in questo momento tutta questa tradizione è diventata un groviglio di risentimenti, lotte intestine, dove è difficile riconoscerci, ci vuole la forza d’animo di Staino che continua a tentare di mantenere viva questa cosa, ma io quella non ce l’ho.
(...)
L'articolo integrale è pubblicato nel n. 1 di Awand, autunno 2021.
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