Dagli anni Settanta fotografa i popoli e i movimenti in lotta per i diritti in Italia e nel mondo. Nei libri accompagna le foto con scritti spesso urticanti «Non ho mai amato la fotografia che documenta. La fotografia che mostra il mondo com’è. La fotografia che non altera i rapporti di forza orribili che reggono il mondo». Gli abbiamo chiesto chi sono i soddisfatti «Sono quelli a cui va bene il mondo come è, hanno avuto tutto quello che volevano e si sentono completi, soddisfatti di sé stessi. La soddisfazione porta a non fare niente per cambiare lo stato delle cose».

Tano DAmico by Dino Ignani

Tano D’Amico in un ritratto di Dino Ignani

 

Nato nel 1942 a Filicudi, cresciuto a Milano, romano di adozione, Tano D’Amico negli anni ha collaborato con quasi tutta la galassia dei giornali e delle riviste della sinistra, dai più moderati, come Repubblica, ai più militanti, come Lotta Continua e Potere Operaio, passando per il Manifesto e Ombre Rosse. Molte delle sue immagini sono nel tempo divenute vere e proprie icone nell’immaginario visivo italiano, soprattutto nell’ambito movimentista; ogni qual volta si parla del ‘77 è molto probabile che ad accompagnare le parole ci siano le sue foto. Ma i suoi reportage hanno raccontato anche l’Italia dei decenni successivi, la Palestina, la Grecia, l’Irlanda, la Germania, la Svizzera, la Spagna e il Portogallo. I suoi tanti libri sono spesso accompagnati da riflessioni sulla professione, sul linguaggio fotografico e sullo stato delle cose con una attitudine ferocemente avversa a coloro che D’Amico chiama i soddisfatti. Le sue parole sanno essere urticanti, per nulla concilianti, valga come esempio il testo Odio le foto belle contenuto in Di cosa sono fatti i ricordi (Postcart, 2011):

«Non ho mai amato le fotografie di intrattenimento. Non ho mai amato le fotografie da appendere al muro, le fotografie che servono a compiacere, le fotografie che lasciano le cose come stanno. Non ho mai amato la fotografia che documenta. La fotografia che mostra il mondo com’è. La fotografia da prova a carico o a discarico. La fotografia che non altera i rapporti di forza orribili che reggono il mondo. È la cosa più reazionaria che ci possa essere. Ho sempre amato la fotografia che va al di là della realtà. Al di là della realtà così come appare. Amo la fotografia che riesce a mostrare anche quello che non si vede. Quella che riesce a vedere le speranze delle persone rappresentate. E se non ci sono, se c’è solo la disperazione nell’umanità che mostra, faccia partecipare le speranze del fotografo. La sete che lo ha spinto per strada. Non ho mai amato le fotografie che sembrano così belle da poter fare a meno dello spettatore. Che condannano lo spettatore a un ruolo inutile e passivo. Che sembrano così belle da reggersi da sole davanti agli occhi degli spettatori. Sono nate già morte. Le più note sono degli inutili idoli morti. Idoli che puntellano realtà statiche. Le cementificano, le rapprendono per sempre. Amo la fotografia che richiede la partecipazione dello spettatore. Ne ha bisogno. Che chiama lo spettatore a dare giudizi sulla realtà che sta vivendo. Che chiama lo spettatore a un ruolo attivo di essere umano. Amo la fotografia che aiuta a vivere, che tiene compagnia. Amo la fotografia che non serve niente e nessuno. Che ha vita e dignità propria. Che non serve a niente. Come l’amicizia e l’amore».

Quando ha sentito di essere padrone del linguaggio fotografico?

Forse non lo sono nemmeno ora. Questo senso di soddisfazione non l’ho mai avuto e spero di non averlo mai. Nella Bibbia il sarcasmo dei soddisfatti è descritto come qualcosa di orribile. Ecco, io penso che anche i soddisfatti siano un po’ orribili.

Questo nel lavoro, ma più in generale, i soddisfatti chi sono? Perché è un termine che torna spesso nelle sue interviste e nei suoi libri.

I soddisfatti sono quelli a cui va bene il mondo come è, hanno avuto tutto quello che volevano e si sentono completi, soddisfatti di sé stessi. La soddisfazione porta a non fare niente per cambiare lo stato delle cose. Sentirsi soddisfatti è qualcosa di statico, è il non curarsi delle persone che stanno peggio.

 

(...)

L'articolo integrale è pubblicato nel n. 13 di Awand, autunno 2024.
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Antonio Ant Cornacchia
Antonio Ant Cornacchia
Grafico, art director, giornalista. Ha studiato all'Accademia delle Belle Arti. È il fondatore e direttore di Awand. C'è chi lo chiama Ant, che sta per formica.

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