PITTURA. «Io non riesco a non ammalare le immagini mentre le creo e a lasciare intonso qualcosa che vive con me ore e giorni. Mi interessa il ritmo vitale, il fare della pittura e della scultura come qualcosa che replica i riti del mio essere al mondo». «Non credo nell’arte schierata dalla parte del giusto, in una sorta di missione per dirimere il bene dal male. Tutt’altro. L’arte era e resta quella striscia in bilico fra i mondi, quell’apparizione che ci mette di fronte a una parte anche scomoda del sé, non necessariamente quella buona, accogliente, compassionevole».
Jordan’s Book, 2023, olio su breccia di Vendome, 79,5 x 72,5 x 2 cm , ph © Rolando Paolo Guerzoni (dettaglio)
Nicola Samorì ha in sé i tratti dell’audace, del ribelle che si realizza nel dinamismo della rivolta. In continuità con i Maestri del passato, l’artista si cimenta, assimila e si sovrappone alla storia dell’arte, dalla quale preferisce divergere anziché lasciarsi intrappolare. Nel corso degli anni ha saputo rinnovarsi di continuo, nell’immaginario e nel linguaggio, raggiungendo un sovrappiù che è parte integrante di ogni sua creazione. Tra recuperi e rotture, nelle sue opere si avverte una violazione della misura che tenta – come direbbe lui – di «mantenere in equilibrio la pazienza e l’impazienza».
Vorrei iniziare la nostra conversazione con una constatazione: tutta l’arte è in qualche modo derivativa, permeata da echi, ripetizioni, perifrasi. In questo senso, le tue opere sembrano aver vissuto molte vite, riescono pur tuttavia a imporre una voce autorevole che arriva da lontano e che non sembra avere eguali.
Scrivi una cosa forte: non sembra avere eguali, anche se è replicando altri che ho iniziato a prendere forma perché il vivo, in arte, sta in piedi sulle gambe di un morto. Ero e continuo a essere una “moltitudine” governata da un implacabile sistema di causa ed effetto. Tutto quello che accade nella mia opera non prevede salti illogici, ma appartiene a un ritmo di crescita spontaneo. All’opposto, vedo schegge del mio fare che come cellule proliferano nelle mani di altri, all’improvviso, senza una ragione d’essere, senza una radice che non sia un piccolo furto per la messa in scena di una parodia.
In effetti, se mi guardo intorno, vedo molti e maldestri epigoni, ma nessuna delle loro opere porta impressi i segni del travaglio, così come accadrebbe a un qualsiasi corpo umano sottoposto a malattia, mutilazione o morte.
Io non riesco a non ammalare le immagini mentre le creo, e a lasciare intonso qualcosa che vive con me ore e giorni. Mi interessa il ritmo vitale, il fare della pittura e della scultura come qualcosa che replica i riti del mio essere al mondo. Quel che manca ai risultati del cosiddetto “artificiale” è proprio una patina onesta sulla pelle delle forme, perché anche l’usura in un’immagine digitale è una simulazione.
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