CINEMA. Erede di maestri come Franco Arcalli e Roberto Perpignani, è uno dei montatori più apprezzati e attivi del nostro cinema. Per molti film accanto a Luca Guadagnino, per cui ha anche sceneggiato e composto colonne sonore, ha lavorato con Dario Argento, Ferzan Özpetek, i fratelli D’Innocenzo. Ci ha raccontato la sua dimensione della creatività e la sua idea di montaggio, in cui il film è come un mobile: «Puoi decidere di costruirlo seguendo le istruzioni, o comporlo in una maniera alternativa».
Walter Fasano in un ritratto di Pino Musi
Cominciamo dall’origine, dal tuo primo contatto con il mezzo di espressione con cui avresti lavorato. Quali sono i tuoi primi ricordi di spettatore al cinema?
Figlio di genitori separati, un pomeriggio alla settimana mio padre portava me e mio fratello al cinema. Ancora prima, avrò avuto quattro o cinque anni, mio nonno mi portava durante la settimana ad un cinema di seconda visione ogni volta che cambiavano il film. Verso i dieci anni ho cominciato ad andarci da solo, era un impulso irresistibile. Le sale in città, a Bari, erano numerose. Il foyer della sala, i poster, i “prossimamente”, era tutto magico. Mi capitava di vedere i film due o tre volte di seguito poiché con un unico biglietto potevi rimanere in sala quanto volevi. Ricordo che nel 1982, a dodici anni, andai a vedere Tootsie di Sidney Pollack. Entrai allo spettacolo delle 16.30 al cinema Orfeo; all’intervallo fra il primo e il secondo tempo chiamai casa per chiedere di venirmi a prendere alla fine del secondo spettacolo, quindi alle 20 e 30, ma all’intervallo fra il primo e il secondo tempo della seconda proiezione chiesi di fermarmi ancora e vederlo per la terza volta: mi dissero di no e vennero a prendermi. Ho visto quindi Tootsie due volte e mezzo quel giorno. Ne amavo la colonna sonora di Dave Grusin, di cui ovviamente comprai il vinile, la fotografia, la scrittura. Durante gli Anni Settanta non era facile come adesso apprendere come si realizzava un film, quindi mi nutrivo di articoli di giornale, recensioni, libri sul cinema, notizie sui cast. E poi c’erano le tv private. Segretissime visioni di film proibiti mi hanno cambiato la vita, perché le emittenti, illegalmente, mandavano in onda ogni film ad ogni ora: Una Lama nel Buio, Vestito per uccidere di De Palma. I film li mangiavo. Temo che la cinefilia sia meno comprensibile oggi che i film sono tutti disponibili alla visione, in vetrina, e quasi chiedono di essere visti. Un tempo la memoria di un film visto una volta ti doveva bastare, il resto era fantasia.
Nel tuo percorso di formazione ci sono le scuole superiori e l’Università, tra Bari e Bologna.
Negli anni Ottanta era un passo naturale lasciare la propria città di origine: nonostante la sorprendente effervescenza culturale di Bari avevo necessità di cambiare aria. Così, dopo cinque esami a Giurisprudenza lasciai la Puglia per iscrivermi al DAMS di Bologna. Avevo cominciato da ragazzino a fare radio fino ad arrivare a condurre le fasce notturne di Radionorba, una grande emittente. Trasferendomi, ho dovuto interrompere un rapporto professionale che stava crescendo molto bene. Ho vissuto a vent’anni tra Venezia e Bologna, dove ho studiato al DAMS ai tempi di Umberto Eco.
Subito dopo c’è il tuo passaggio al Centro Sperimentale Cinematografia. Come ci sei arrivato?
A Venezia mi era capitato di frequentare un ciclo di incontri sui mestieri del cinema, tenuti da Roberto Ellero. In una di quelle occasioni incontrammo Simona Paggi, eccellente montatrice di alcuni dei più bei film di Gianni Amelio, candidata all’Oscar per La vita è bella: ascoltarla mi permise di mettere in fila i pensieri. Decisi di fare domanda al Centro Sperimentale per il corso di Montaggio. Avevo capito, complice lo studio del cinema muto e della Nouvelle Vague, che il montaggio rappresentava una pratica artistica, teorica e tecnica che mi interessava. Mi andò bene, fui preso al Centro.
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