CINEMA. Esordisce con cortometraggi di finzione ma da subito, tra le strade di Palermo, comincia a raccontare la vita e i bambini di Palermo. Il cinema di Costanza Quatriglio è terra di confine e di oggetti “non identificabili”, in equilibrio instabile tra realtà e fiction. Una esplorazione capace di costruire mondi, debitrice delle lezioni di Abbas Kiarostami e Agnès Varda, che tiene insieme “la realtà, l’archivio, ma soprattutto il gioco con il cinema”.
Costanza Quatriglio in un ritratto di Azzurra Primavera
Cineasta e documentarista in ricerca, Costanza Quatriglio si muove dentro un cinema fatto di ibridazione tra linguaggi, sempre liminare tra realtà e ricostruzione. Attraversando un percorso unico come la sua filmografia, costellata da produzioni molto diverse tra loro, abbiamo incontrato lo sguardo di una regista e di una donna che sa mettersi in ascolto, e vive la curiosità come motore creativo.
Di solito nelle nostre interviste partiamo dagli esordi del percorso artistico. Con te vorrei invece partire dal tuo film più recente, Il cassetto segreto dedicato a tuo padre Giuseppe, importante figura del giornalismo e della cultura siciliana. Come sei arrivata alla realizzazione di un progetto così personale?
Se questa domanda mi fosse stata posta mentre realizzavo Il cassetto segreto, avrei risposto che è stato il film a imporsi a me. Ho iniziato filmando i bibliotecari e le archiviste nell’appartamento dei miei genitori – la casa che ho lasciato quando avevo 23 anni – mentre lavoravano alla catalogazione dei libri e dell’archivio di mio padre, prima che costituissi il Fondo a suo nome e che questo venisse trasferito alla Regione Siciliana, presso la Biblioteca Centrale. Li ho filmati con l’intento di documentare quello che stava accadendo, di testimoniare, di lasciarne traccia, ma non avevo l’intenzione chiara di farne un film. Ho vissuto la loro presenza nella mia casa organizzandone il lavoro, la gestione degli innumerevoli libri, documenti, fotografie e bobine che via via andavano scovando con il passare dei giorni e dei mesi.
Da parte mia era un continuo trovare un metodo, un criterio, per comprendere la portata della scoperta di tutto quel mondo che si dischiudeva davanti a me, un pezzettino alla volta. Un grande sforzo fisico e intellettuale che era già di per sé un percorso narrativo di chiarificazione continua. A un certo punto mi sono resa conto che quello che stavo facendo non era altro che l’organizzazione di un pensiero sempre all’erta, volto a comprendere, a decifrare. Come in una caccia al tesoro, seguivo le tracce di qualcosa che andava ritrovato e riconosciuto proprio nel luogo a me più caro. Fare il film, a quel punto, è stato naturale; in questo sono stata incoraggiata sia da Cinecittà che dalla produzione Indyca. Ho deciso che avrei cominciato a indagare il materiale girato nella mia casa anche grazie a Letizia Caudullo, montatrice purtroppo venuta a mancare quando ancora il film non era terminato, con cui avevo una importante esperienza di collaborazione. Mi sono fidata del fatto che un film così personale potesse avere una sponda altra da me; insieme abbiamo deciso di inserire dentro questo film le immagini di mio padre che avevo realizzato quando lui aveva 90 anni.
Ecco perché oggi, a distanza di più di un anno dall’uscita del film, alla tua domanda posso rispondere con maggiore precisione: questo film mi ha permesso di mettere insieme tanti aspetti del linguaggio cinematografico che mi interessano profondamente: la realtà, l’archivio, ma soprattutto il gioco con il cinema. Già dalle prime inquadrature si avvia una riflessione che diventa sempre più profonda sullo sguardo, sul filmare, sul gesto del testimoniare, sul gesto creativo dell’artista, su cosa significhi riprodurre ciò che ci circonda, che per pigrizia noi tutti chiamiamo ‘realtà’. Cosa significa stare sulla soglia del reale con un gesto che si ripropone di restituire lo spazio-tempo della Storia, quanta illusorietà ci può essere in quel gesto, e anche quanta violenza, consapevole o inconsapevole.
È, in sintesi, una delle più pure riflessioni sul gesto del fare cinema che potessi fare, ed è anche un cambiamento del mio posizionamento come regista, perché fino a questo film ho sempre trattato storie lontane da me che ho avvicinato mettendo in campo processi di ascolto divenuti processi narrativi (gli esempi sono tanti, uno per tutti: il film a soggetto – o di finzione – Sembra mio figlio, del 2018, girato in hazaragi, la lingua persiana del popolo hazara, originario del cuore dell’Afghanistan).
Una riflessione sul gesto del filmare l’ho fatta anche altre volte, sempre in modo diverso, a seconda del racconto. Prima del Cassetto segreto, il mio più recente documentario in ordine di tempo era del 2015, 87 ore, sulla morte di Francesco Mastrogiovanni (escludendo Palermo Sospesa, indefinibile follia musicale del 2020, né documentario, né musical, né film a soggetto, né docu-fiction ma tutto insieme).
87 ore è costruito con i filmati delle videocamere di sorveglianza del reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, nel Cilento, in Campania; qui la riflessione mette in campo anche lo sguardo dello spettatore, che diventa, nel corso del racconto, protagonista della narrazione.
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