MUSICA. È nato a Cuba ma da sempre calpesta i palchi di tutto il mondo suonando il piano con uno stile personalissimo «Telonious Monk e la sua filosfia “Suona quel che ti senti” sono tra i miei riferimenti in assoluto». «La musica non ha passaporto, io non ho mai smesso di misurarmi con le tradizioni musicali del mondo intero. Ho sempre conservato il desiderio e la volontà di confrontarmi con le diversità.»
Omar Sosa in un ritratto di Rocco Crudele
Lo incontriamo quando, all’età di 60 anni, ha realizzato più di trenta lavori discografici - molti dei quali con la sua etichetta Otà – occupando la scena artistica mondiale del jazz, del latin jazz e della world music. Cubano di nascita e di formazione accademica, cosmopolita per vocazione, migrante totale, ha poi scelto di vivere in Italia. Dopo tanto peregrinare ha trovato a Bari un luogo dove fermarsi. Ha conosciuto Cristina e la dieta mediterranea, l’amore e la soluzione ai suoi problemi di stomaco: “Non mi ero mai preoccupato della mia alimentazione e mi sono reso conto dell’importanza del mangiare sano”. Omar Sosa, pianista talentuoso e con un suono decisamente fuori dagli schemi perché, in realtà, è un percussionista “a cui piace suonare il piano”. E non è un caso se uno dei suoi innumerevoli progetti musicali si chiami “Suono il piano come 88 tamburi” che richiama il titolo del documentario Omar Sosa’s 88 Well-Tuned Drums. Comunichiamo con il mio improbabile spagnolo e il suo italiano basico, conditi dal reciproco gesticolare latino ma, per fortuna, c’è Cristina De Vita che ci fa da tramite. La conversazione non può che partire da come tutto è cominciato.
Sono nato a Camagüey e fu la banda a folgorarmi quando da ragazzino suonavo il rullante. Quando confessai ai miei genitori che mi piaceva la musica, mio padre si mostrò scettico. Non pensava che fare musica mi avrebbe potuto dare da vivere. Insomma non lo trovava un vero lavoro. Fu mia madre a crederci e a incitarmi a studiare musica. Per me la musica rappresentava fare festa. E devo dirti che inizialmente non ero un bravo scolaro, ero molto indisciplinato perché preferivo suonare piuttosto che studiare. Comunque a otto anni ero al conservatorio municipale per studiare percussioni e in particolare le marimba. Continuai alla Scuola Nazionale di Musica dell’Avana e all’Istituto Superiore d’Arte. Compresi l’importanza dello studio di composizione ed armonia e fu allora che mi avvicinai al pianoforte, che diverrà il mio strumento preferito. Aver imparato a suonarlo da autodidatta, con una formazione scolastica da percussionista, mi ha forse dato quel suono che è il mio stile personale e che oggi mi caratterizza. Durante gli anni del conservatorio, per la vita che facevo, era assai complicato suonare e al tempo stesso studiare. Suonando potevo guadagnare dei soldi ma mi toglieva tempo per lo studio. Si faceva sempre molto tardi e - tra festa, balli, e bevute - si finiva col fare le quattro del mattino. Alle otto poi dovevi essere a scuola.
Prima di approdare al jazz hai suonato in molti contesti differenti.
Sono cresciuto in un contesto di cultura cubana abbastanza tradizionale. Facendo esperienze in gruppi di musica popolare, di musica sociale tipo Inti-Illimani, di musica da ballo. Quando studiavo a Camagüey con un piccolo complessino facevamo le cover dei Los Van Van. All’Avana, durante il servizio militare obbligatorio, mi ritrovai con un gruppo che si chiamava Tributo e facevamo musica tradizionale cubana, tipo quella di Arsenio Rodríguez. Componevamo anche canzoni per l’esercito cubano. Incidemmo un paio di dischi. Poi cominciai a lavorare con Xiomara Laugart, una delle cantanti più popolari di Cuba. Il jazz lo avvertivi maggiormente a l’Avana dove operava un gruppo formidabile chiamato Irakere - una band fondata dal pianista Chucho Valdès, estremamente innovatore nel jazz afro-cubano e nella musica da ballo popolare. Irakere è stato il gruppo che ha portato in tutto il mondo la musica afro-cubana, ma a Cuba non poteva essere usato il termine jazz perché il jazz era “la musica del nemico”. Per dirti: il sistema scolastico cubano prevedeva che chi studiava avesse diritto a vivere nel conservatorio. Io avevo il mio posto letto nelle camerate. Tutto era molto militare. A una certa ora andava via la luce e si doveva dormire. Ma spesso noi restavamo svegli e con una piccola radio in FM ci sintonizzavamo su una radio di Miami perché trasmettevano musica americana: jazz, funk, rithm’n blues. Ascoltavamo Oscar Peterson, Duke Ellington, John Coltrane, gli Earth Wind & Fire, i Weather Report… Per noi era la maniera per ascoltare quello che si produceva nel mondo occidentale. Fu allora che conobbi la musica del pianista Thelonious Monk che credo mi abbia maggiormente influenzato. Da noi non arrivavano i dischi o gli spartiti di quel mondo musicale e l’unico modo per conoscerla era origliare in quella radiolina FM. Monk sarà poi uno dei miei riferimenti in assoluto. Il suo maggior insegnamento è tutto sintetizzato nella sua filosofia di libertà: “Suona quel che ti senti”.
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