MUSICA. «A Gaza si consuma un vero genocidio. Mi sono schierato apertamente in sostegno del popolo palestinese». «Si parla molto della questione energetica e molto poco dell’iniquità alimentare. Il cibo è la metafora della nostra esistenza». «Mi definisco un jazzista ma non credo nell’ortodossia del jazz. Perché è la musica più aperta e curiosa che ci sia».
Paolo Fresu in concerto alla Reggia di Monza per Royal Summer Stage 2025. Foto di Maurizio Anderlini © musicamorfosi(dettaglio)
Incontriamo il musicista sardo a poche ore dalla “coda” settembrina che, venerdì 5 e sabato 6 settembre, ha chiuso l’edizione 2025 di Time in Jazz di Berchidda, il festival diretto da 38 anni dallo stesso Paolo Fresu. Riusciamo a “rubargli” un’oretta per una chiacchierata spassionata sulla sua vita da jazzista non ortodosso. Poi si ricongiungerà con i musicisti del trio che lo vedrà sul palco con il pianista bosniaco Bojan Z e il chitarrista franco-vietnamita Nguyen Lè.
Con uno come lui non sai da cosa incominciare perché la sua crescita stilistica e la sua dimensione di musicista internazionale sono il risultato di una vita piena di dischi, di collaborazioni a 360°, di contaminazioni di generi e di un voluto meticciato. La sua tromba e il suo flicorno li ritroviamo in più di 500 album (a suo nome, con altri o da ospite) e in migliaia di concerti per il mondo. Tutto questo gli ha portato una trentina di premi e riconoscimenti artistici. È tanta roba! A tutto questo va aggiunta una dozzina di libri in cui Fresu offre la narrazione della sua crescita, i suoi incontri e la sua “filosofia musicale”. Una lunga e ricca carriera non la si può sintetizzare in una intervista. Abbiamo allora scelto alcuni temi che oggi ci sembrano sensibili. Siamo partiti da Gaza, anzi da 35 anni prima. Quando il quotidiano Il Manifesto pubblicava un 45 giri dal titolo Canto per la Palestina e lo allegava al giornale. Un progetto che lo vedeva coinvolto con molti altri musicisti del Sud Italia che accompagnavano una sorta di inno alla libertà cantato dai bambini palestinesi del Coro Al Aqsa.
Oggi ripensare a quel lavoro mi riporta a un afflato di emozione poetica. Ma mi fa un effetto non bello se penso al punto in cui siamo. Significa sostanzialmente che quell’attenzione di allora sul conflitto tra israeliani e palestinesi - non solo nostra ma di tanti altri - non ha prodotto nulla. Né siamo noi musicisti che, allora come ora, decidiamo le sorti di quel conflitto. Oggi c’è tuttavia una presa di coscienza sicuramente diversa da allora. Io sono stato più volte in Palestina, sempre a titolo di solidarietà, a Betlemme per un concerto di Natale e a Gerusalemme Est per una rassegna di jazz. Quella volta, una quindicina di anni fa, ero stato invitato dal bassista israeliano Avishai Cohen che dirigeva il festival. Fui coinvolto in una petizione pubblica di un’associazione sarda che, sostenendo la causa palestinese, richiedeva che io non andassi a suonare in Israele. Una cosa che finì su tutti i giornali perché loro erano, giustamente, molto agguerriti e riportavano esempi di tanti altri musicisti che si erano rifiutati di suonare in Israele. Io dissi invece che ci sarei andato perché la musica è di tutti, perché era necessario. Tra l’altro avevo e ho molti amici israeliani che non vivono lì e di cui conosco il pensiero profondamente critico verso la gestione politica del loro paese. Insomma ci andai e la cosa provocò polemiche sulla stampa. Devo dire che oggi non andrei in Israele: si è superato il limite. Stolto è chi non ammette i propri errori. A dirla tutta non so neppure se fu realmente un errore ma è evidente che oggi la situazione è completamente diversa. Ed è inaccettabile.
Potremmo però dire che la tua vicinanza al popolo palestinese, dopo quel concerto in Israele, assume un peso maggiore. Nessuno potrebbe accusarti di antisemitismo.
Esatto. Oggi parliamo di un vero genocidio e non è una parola sbagliata. Non possiamo assistere inermi, né tantomeno in silenzio, perché diventeremmo complici tutti. Siamo difronte a una problematica di natura umana ancor prima che politica. Quella politica non possiamo risolverla noi ma sul piano umano la nostra vicinanza è necessaria. Poi è vero che molti musicisti del Sud o delle isole sono particolarmente sensibili su questo tema. Forse perché quei luoghi sono abbastanza vicini a noi. Prendiamo una barca e da quelle parti approdiamo. Se oggi ripenso a quel Canto per la Palestina mi ritrovo sensazioni negative, di impotenza, perché da allora non è cambiato nulla, anzi le cose sono peggiorate. Oggi siamo a una tragedia umana impensabile, con decine di migliaia di morti tra cui numerosissimi bambini. Si sta ripetendo quello che accadeva nella Germania della seconda guerra mondiale. Quello che noi abbiamo appreso solo dai nostri nonni o da quelli che l’avevano vissuta. Oggi assistiamo a una cosa esattamente uguale ma in diretta streaming. Siamo di fronte a uno sterminio… Se ripenso a quel disco, come anche alle valutazioni che feci quando decisi di suonare in Israele, mi rendo conto che non immaginavo che Israele avrebbe continuato a calpestare i diritti dei palestinesi. Già allora mi dichiarai “in attenzione”. Oggi assistiamo a cose orribili di cui siamo un po’ tutti responsabili. Quando i nostri figli ci chiederanno cosa abbiamo fatto per evitarlo non sapremo cosa rispondere. Noi musicisti possiamo utilizzare la musica, che è in grado di elevare la coscienza. O almeno voglio sperarlo. Su questa faccenda io mi sono schierato apertamente. Ho appena pubblicato il video a sostegno della Global Sumud Flotilla che punta su Gaza. Ho suonato a Roma alla manifestazione in sostegno del popolo palestinese.
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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 17 di Awand, autunno 2025.
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