Il regista e insegnante del Centro Sperimentale ripercorre i suoi trant’anni di cinema:
«C’è altro oltre noi che non sappiamo più vedere e che il popolo, quello dei contadini e dei pastori, invece sapeva, e talvolta sa ancora, vedere.»
Con il suo cinema, in un viaggio lungo oltre trenta anni, ha raccontato un’Italia nascosta, laterale, spesso dimenticata. Il suo sguardo sulla realtà, in equilibrio tra rigore antropologico e ricerca espressiva, è uno dei più interessanti del documentario italiano contemporaneo. Docente di cinema al Centro Sperimentale di Cinematografia, che ha anche frequentato da studente, al rapporto tra realtà e finzione, in un percorso di riflessione sul cinema che si muove anche attraverso le altre arti, ha dedicato il libro “È reale? Guida empatica del cinedocumentarista”, per le edizioni Artdigiland.
Proviamo a cominciare dalle parole. Negli ultimi anni si parla sempre più spesso di “cinema del reale”, una etichetta che sembra aver sostituito quella più antica di “documentario”. Credi in questo tipo di categorie?
A mio giudizio le categorie vanno considerate esclusivamente come uno strumento di comprensione utile al dibattito teorico. Per questo motivo, pur guardando con un po’ di diffidenza alle parole “finzione”, “documentario”, “non fiction”, “docufiction”, “cinema del reale”, al tempo stesso so che, specie in ambito didattico, queste differenziazioni servono a farsi capire, perché ci sono approcci e approcci. Lo affermo non solo da regista, ma anche da insegnante di cinema. Nella pratica le cose poi cambiano, certo, basta che arrivi un film come Close-up di Abbas Kiarostami, dove verità e finzione in chiave di psicodramma si mescolano intorno alla figura di un cinefilo che si finge il regista Mohsen Makkmalbaf, e si scardina tutto.
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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 2 di Awand, inverno 2021-2022.
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