POESIA. Trentatre anni tra l’esordio con Tornando nel tuo sangue e l’ultima uscita, Inabissarsi «Oggi c’è un vuoto, un baratro che cerca di essere coperto da effetti speciali, da bolge infernali. Alle spalle abbiamo le civiltà che abbiamo bruciato sull’altare di che cosa? Sull’altare di una finanza che è pura quantità, che non ha nessuna idea di qualità. In questo momento credo che abbiamo molto bisogno di tradizione.» Chi è Poeta? «Chi ha coraggio di affrontare la propria ombra, chi non può prescindere da questo.»
Aldo Nove ritratto da Dino Ignani
Come è nato il tuo fare poetico e cosa ti spinge a scrivere poesia oggi?
L’impossibilità di non affrontare la percezione di un groviglio interiore e di una mancanza, cosa che percepisco così come ho scritto nel mio ultimo libro (Inabissarsi, Il saggiatore). Quando ero bambino della poesia mi piaceva ciò che allora potevo approcciare, che mi veniva proposto, quindi innanzitutto Gianni Rodari. Anche adesso, cosa faremmo se non avessimo il linguaggio? Siamo dentro questa sorta di ragnatela che ci permette allo stesso tempo di esprimerci ma che costituisce il grande limite entro il quale, in quanto umani, siamo collocati. Ecco, questa cosa, in modo infantile, l’ho percepita direi da subito. Ma subito cosa vuol dire rispetto ad un’esperienza umana? Quando ho incominciato ad approcciarmi ai testi a quattro, cinque anni — avevo imparato a leggere molto presto — ero molto chiuso, molto isolato, non mi piaceva avere rapporti con gli altri, ero un po’ sull’autismo andante, quindi leggevo leggevo leggevo e ad un certo punto ho iniziato anche a scrivere.
La tua prima raccolta in versi Tornando nel tuo sangue risale al 1989, l’ultima Sonetti del giorno di quarzo è del 2022. Trentatre anni in cui partendo da un verso più libero sei approdato alla forma chiusa del sonetto. Come si arriva a questa scelta e che senso ha la metrica nella poesia contemporanea?
Ha senso perché oggi c’è un vuoto, un baratro che cerca di essere coperto da effetti speciali, da bolge infernali, vedi tutta la questione, che comunque sta crollando, delle leggi LGBT, la fluidità eccetera. In fondo nell’89 ancora aveva senso fare sperimentazione, staccarsi dalla tradizione per fondarne un’altra, anche se comunque nel mio primo libro c’erano endecasillabi e settenari. Ma il ritorno alla forma chiusa, al sonetto l’ho sentito proprio come esigenza non di restaurazione ma di ancoraggio ad una tradizione che se, come sta accadendo, perdiamo completamente, ci lascia tali e quali a come siamo oggi, cioè tendenzialmente vuoti. Perché è così che si vuole che si sia, vedi la cosiddetta intelligenza artificiale e l’altro paccottame universale di svuotamento dell’umano in favore non so di che cosa, di un sistema macchinico. È stato molto profetico e anche piuttosto preciso a proposito il film Matrix. Abbiamo delle residue energie, così ce le portano via e andiamo avanti, anzi no, vanno avanti loro… E questa cosa può essere contrastata con un’operazione, l’angelo di Benjamin al contrario: alle spalle non abbiamo ruderi, alle spalle abbiamo le civiltà che abbiamo bruciato sull’altare di che cosa? Sull’altare di una finanza che è pura quantità, che non ha nessuna idea di qualità. Io spero che Putin ci invada, ovviamente non ha nessuna intenzione di farlo, perché sarebbe troppo stupido, sarebbe come entrare nella mente di mostri tipo Macron e l’altro scemo in Inghilterra, ma in questo momento credo che abbiamo molto bisogno di tradizione.
La tua scrittura pur riferendosi spesso ad un bisogno, una tensione lirica di trascendenza, non smette mai di occuparsi del reale, dalla bolletta dell’Enel alla pandemia, passando per MasterChef. È lo scarto tra reale e invisibile che siamo tenuti a incarnare per restare vivi?
L’intersecarsi dei due aspetti credo che sia precipuo dell’umano, sempre. Dante stava in mezzo ai casini del suo tempo, i suoi problemi familiari, matrimoni, tra guelfi bianchi e ghibellini, non si capiva più niente… Siamo sempre stati immersi in un contesto dal quale chi sente l’esigenza di passare oltre non può comunque prescindere. Non ho percezione mai di una poesia pura, di una poesia completamente trascendente. Abbiamo un fortissimo vincolo, a partire dal fatto biologico a quello sociale, che ci tiene qua, qualunque anelito divino ci spinga verso altro, intanto che siamo incarnati.
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