COMUNICAZIONE. È il fondatore e direttore dell’agenzia di comunicazione Parole & Dintorni «Ho iniziato seguendo i Ramones, i Nirvana al Bloom di Mezzago e il primo live dei Blur in Italia, con novanta paganti al Canguro Music Box di San Romano al Lambro». «Ligabue, con cui lavoro da vent’anni, mi ha detto: “Ricky grazie per tutto, lo so, il tuo è un lavoro di merda, ma lo fai con abnegazione”». «Non esiste più la critica musicale, ciò che conta è stare sulla scena dei social. Stiamo vivendo una deriva giornalistica che si ferma alla superficie ed è specchio della deriva della nostra società, in cui la fa da padrone tutto ciò che è fugace, istantaneo»
Fondatore e direttore dell’agenzia di comunicazione Parole & Dintorni, la più grande agenzia italiana specializzata in relazioni con i media nel settore dello spettacolo, in particolare quello musicale — rappresenta artisti come De Gregori, Zucchero, Baglioni, Ligabue e molti altri — con Riccardo Vitanza abbiamo esplorato la sua professione di comunicatore, la sostenibilità economica, l’evoluzione tecnologica, com’è cambiato nel tempo il significato di notizia e l’imprescindibile fattore persona.
Riccardo, cosa significa fare comunicazione?
In primis, assumersi una responsabilità e non di poco conto: fare comunicazione vuol dire comunicare di qualcuno e prendersi la responsabilità di quello che si comunica, ben sapendo che potrebbero esserci anche delle ripercussioni, dei contraccolpi, delle conseguenze derivanti da ciò che si dice, scrive e asserisce. Fare comunicazione significa trasmettere delle informazioni per iscritto a dei giornalisti, attivare quel meccanismo detto mediazione giornalistica che ti permette di arrivare al pubblico, che si informa così sulla base di quello che tu hai comunicato. La responsabilità è doppia nei confronti del cliente che rappresenti: stai in accordo e concertato con lui, ma per lui, al contempo, stai facendo arrivare l’informazione a un pubblico che grazie a quelle parole che poi vengono trasformate in articoli e interviste, ne verrà influenzato; quando veicoli un’informazione, puoi condizionare una vita sulla base della stessa, anche semplicemente indicando la via sbagliata di una venue.Il nostro lavoro è un’obbligazione di mezzi, non di risultati. Lavoriamo nel campo dell’informazione e non della pubblicità: le due aree sono sempre più vicine, un tempo correvano parallele, oggi comunicazione e marketing sono un tutt’uno, purtroppo. Dico purtroppo perché un conto è avere un budget e spenderlo acquisendo spazi sui social, i totem, le affissioni e quant’altro, un altro è relazionarsi con i giornalisti, una cosa completamente diversa e per la quale si fa un’altra tipologia di attività: quando un cliente mi chiede dove lo faccio uscire, gli dico che non posso garantire nulla, se non la mia professionalità e quella del mio team. Basta guardare la nostra storia, se abbiamo determinati clienti, se abbiamo seguito certi progetti, un motivo ci sarà. Ci occupiamo di eventi, festival, cinema, rassegne culturali come la Milanesiana, la Milano Music Week, Piano City Milano e il Primo Maggio di Roma. Siamo 16 persone, 17 con il sottoscritto, e nel nostro team c’è una gerarchia ben precisa: ci sono io, la mia vice Marta Falcon, l’area ufficio stampa e comunicazione, suddivisa in tre fasce, e l’area promozionale TV, diretta da Stefano Seresini. Le due aree si parlano, dialogano sui media tradizionali (agenzie di stampa, quotidiani, periodici), quelli digitali (siti web, podcast, blog, pagine Instagram e TikTok), radio, Tv e altre fonti di informazione. La nostra attività è caratterizzata da mille sfaccettature e per ogni cliente operiamo con entrambe le aree, qualora non chieda esplicitamente solo di essere seguito come ufficio stampa o promozione radio e TV.
Qual è l’aspetto che ami maggiormente del tuo lavoro?
Ciò che del mio lavoro adoro è l’adrenalina, la possibilità di formare e valorizzare le risorse umane, il senso di responsabilità, quel poter influire nella comunicazione verso il giornalista e grazie alla sua figura verso il pubblico, tutto ciò che è la pianificazione, il coordinamento e la gestione. Mi piace aver cura dei dettagli, non amo improvvisare né lasciare nulla al caso. Preparare una strategia di comunicazione mi appaga molto, pensare a cosa voglio fare e dire e dove voglio arrivare.
E quello meno stimolante?
Quando subentra la routine: cerchiamo di evitarla accuratamente, abbinando al rigore professionale una buona dose di creatività, ogni piano di comunicazione è pensato ad hoc, per ogni cliente c’è una proposta personalizzata, ponderata a seconda del target, dell’artista, del prodotto e degli obiettivi, tutto è contemperato con i tempi e con i materiali che si hanno a disposizione. L’interesse per la notizia è fondamentale, quando non c’è devi crearlo ed è una cosa che adoro fare, cercando, tra le pieghe di un testo, di una dichiarazione, per soddisfare il palato del giornalista.
Sull’interesse del giornalista mi fermo: in questi anni, com’è cambiato?
Qui apriamo una parentesi bella lunga. Negli anni il giornalismo si è trasformato e di conseguenza è completamente mutato lo scenario della comunicazione. Esisteva la critica musicale, ora non c’è più: un tempo sapevi che dando il prodotto al giornalista, che fosse un disco, un libro o un file oppure facendogli vedere un concerto, dall’altra parte sarebbe arrivata una critica, una cronaca, una valutazione. Leggere un articolo significava conoscere il pensiero di chi lo aveva scritto e non era raro che un giornalista potesse incidere sui lettori; i giornali vendevano molto e c’era un grande seguito, i titoli erano misurati, legati realmente al contenuto di ciò che veniva pubblicato. Dall’avvento di Internet fino a oggi, con i social e l’intelligenza artificiale, tutto si è inserito in un frullatore che frulla notizie false e vere, in cui spesso alcune vere sembrano false e viceversa, e i giornalisti sono condizionati dalle decisioni non tanto dei caporedattori ma dai direttori. Questo era successo già tempo fa, quando Paolo Mieli, allora direttore, come si diceva nell’ambiente, mise la minigonna al Corriere della Sera, significava che un giornalista politico durante l’intervista al premier di turno, gli faceva domande su temi di politica nazionale e internazionale ma anche sulla sua barca. Da quel momento il famoso colore ha cominciato a dilagare sempre più nel giornalismo, nella politica, nell’economia, nello sport, nello spettacolo e nella musica: oggi non esiste più la critica musicale, è stata sostituita dalla mera cronaca con derivazioni varie, ciò che conta è stare sulla scena dei social, produrre titoli acchiappa click che spesso non riflettono nemmeno il contenuto dell’articolo o dell’intervista, anche quando è fatta bene. Stiamo vivendo una deriva giornalistica che si ferma alla superficie ed è specchio della deriva della nostra società in cui la fanno da padrone non solo i reels, ma tutto ciò che è fugace, istantaneo. L’approfondimento c’è – pensa a realtà come Micromega o Internazionale a cui peraltro sono abbonato – ma va ricercato. Per esempio, io sono nato in Africa, l’amo e sono abbonato a due riviste, Nigrizia e Africa, su cui cerco approfondimenti dedicati che difficilmente trovo nei giornali e telegiornali, dove al massimo si parla di cronaca. Alla maggior parte dei lettori e degli utenti però non interessa l’approfondimento, basta un titolo, una condivisione di video e si ferma là. Anche questo meccanismo fa parte della deriva giornalistica. Nel campo musicale durante un’intervista si limita a due, tre domande sul disco appena uscito, senza esplorarne contenuti e caratteristiche, si chiede tutt’altro. Siamo nel periodo dell’elezione del Papa? Domanda su di lui. Scoppia un nuovo scontro tra Stati? Si chiede di quello! Domandare a un artista cosa ne pensa di un determinato argomento è utile per avere quel famoso titolo ad effetto.
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