Musica. «Con Incanti abbiamo fatto più concerti in Francia e in Germania che in Italia. E lì ho scoperto che stavo facendo world music. Io non ho mai pensato di cantare spacciandomi per mio nonno. Le radici vanno preservate ma bisogna guardare sempre al futuro». «Si può fare politica in tanti modi e noi abbiamo il dovere di farla attraverso il nostro lavoro. Quando sento che i musicisti non si devono occupare di politica a me vengono i brividi».
Elena Ledda in un ritratto di Andrea Boccalini
Per alcuni è “la voce della Sardegna”. Per altri “l’erede di Maria Carta”. Ma l’interessata non ha mai preso sul serio queste definizioni perché lei, pur avendo selto di fare la musica popolare, si mette da sempre in gioco con il suo modo di usare la voce. Fino alla sperimentazione e la contaminazione che le hanno permesso di andare oltre lo stereotipo dell’interprete folk, dal sapore solo regionalistico. La potremmo piuttosto ritrovare in quella grande famiglia cosmopolita che è la world music.
Però va detto che Elena Ledda di sicuro conosce molto bene quel mondo contadino che per generazioni è stata l’attività della sua famiglia: piccoli proprietari terrieri di una terra che “se non la lavori non ti dà niente”. Ma Elena ha sempre avuto ben chiaro quello che avrebbe fatto da grande: la musica. Che non vuol dire “riscoprire le proprie radici”, come è accaduto a tanti interpreti del canto popolare.
I miei genitori non mi hanno aiutato in questa mia scelta che poteva apparire estemporanea ma neppure mi hanno ostacolato. Tuttavia a casa dei miei la musica era molto importante. Molti miei avi suonavano qualche strumento, non da professionisti ma da appassionati. Una mia zia, che porta il mio stesso nome, cantava. Ma per puro diletto. Forse è stata lei ad ispirarmi. Mio fratello suona la chitarra, mia sorella insegna canto. Insomma la musica mi girava intorno. Spesso sento dire, da quelli che fanno il mio lavoro, che hanno riscoperto le radici. Io non ho dovuto riscoprire niente. Io le avevo in casa. Nel senso che quando ero bambina, se c’era una festa, ci si ritrovava nelle case contadine. E c’era sempre qualcuno che cantava in sardo, anzi in logudorese (la variante settentrionale della lingua sarda, n.d.r.). Ed era abbastanza normale. Il sardo era la lingua di casa, era la lingua del mio paese. Insomma non ho mai dovuto recuperare queste cose. Mi sono detta: voglio fare la cantante e devo studiare. Ho studiato la musica e i dialetti che non erano del mio territorio: il logudorese e il gallurese. Inoltre ho dovuto studiare al conservatorio in maniera accademica come cantante lirica. E, mentre continuavo e completavo gli studi, svolgevo già la mia attività sul canto popolare sardo. Mi si prospettava anche una possibile grande carriera in quanto ero un “soprano drammatico”. Mi esibivo da soprano. Facevo i concorsi… ma, finiti gli studi, ho preferito fare la cantante popolare: una scelta di vita. Era quello che più mi dava felicità. E la felicità me la dava la musica popolare perché era un mondo di condivisione. Poi mi sono accorta che non era stata solo una scelta di vita ma una scelta artistica e politica. Perché con il mio lavoro ho potuto parlare di lingua sarda in maniera più efficace.
Nel 1979 incidi per la Durium un primo album, Ammentos, una raccolta di brani tradizionali, in compagnia di tuo fratello Marcello alla chitarra. Nello stesso anno entri a far parte del gruppo Suonofficina.
Diciamo che di lì è partito il laboratorio musicale Suonofficina. Il nome in sintonia evidente con quegli anni. In seguito si chiamerà Sonos. Ma continuerà ad essere un laboratorio aperto. Un nucleo storico di cui fanno parte Simonetta Soro (voce), Mauro Palmas (mandole, mandoloncello), Silvano Lobina (basso), Marcello Peghin (chitarra),
Alberto Pisu (batteria e percussioni)… Straordinari musicisti che coltivano anche progetti propri. Ragion per cui anche Sonos diventava un limite, soprattutto se accoppiato al nome di ognuno di noi. Creava solo confusione e non aveva senso. Per i singoli progetti ognuno usa il proprio nome.
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