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ghosteen 11

 

Sto ascoltando Ghosteen di Nick Cave. Lo sto riascoltando dopo tanto tempo. L’avevo sentito per la prima volta durante il primo lockdown. Lo avevo fatto di proposito. Mi ero appena separato dalla madre di mia figlia, neanche il tempo di iniziare ad abituarci tutti a quella nuova misteriosa vita che ci attendeva che eravamo stati rinchiusi in casa. Dentro di me aleggiava una sensazione di lutto, di abbandono, un terrore freddo.

Era una sera, mi ero sdraiato sul divano, avevo spento le luci e avevo fatto partire la musica. Avevo letto di cosa trattava quel disco. Ne ero consapevole. Stavo finalmente iniziando a capire che ogni dolore può essere superato soltanto immergendosi nelle sue acque, infilando la testa sotto la linea della superficie, trattenendo il respiro. Per poi aprire gli occhi e guardarsi bene in giro. Analizzare il dolore, sentirselo addosso, constatare i segni visibili e quelli invisibili. La sensazione di fallimento. Il rimpianto, istintivo, umano, inevitabile da un punto di vista emotivo. E quindi mi era sembrata la cosa giusta da fare. Se Nick Cave era sopravvissuto, sublimandolo nella sua arte, al dolore per la scomparsa del figlio, allora forse con il suo aiuto, con la sua musica, la sua voce, le sue parole, sarei riuscito a trovare col tempo anch’io un modo per venirne fuori, sempre sperando che il mondo nel frattempo non si dissolvesse, non si tramutasse in una serie di piccole gabbie nelle quali saremmo rimasti rinchiusi per sempre, prigionieri delle relazioni digitali.

Me la ricordo come una delle esperienze più emotivamente sconvolgenti della mia vita. Davvero. L’istinto di alzarmi ogni due secondi per fermare la musica. Fino a quando non avevo abbandonato il divano per sdraiarmi sul pavimento. Lì ero riuscito a lasciare che tutto mi piovesse addosso. Era una sera primaverile. Dalla finestra aperta entravano solo silenzio e un’aria fresca, piacevole. Nessun rumore di macchine.

Ho deciso di riascoltarlo stasera perché da qualche giorno sto leggendo Fede, speranza e carneficina, il libro di Nick Cave di conversazioni telefoniche realizzate con il giornalista Sean O’Hagan (La Nave di Teseo, trad. Chiara Spaziani). Stamattina ero in un centro medico, in attesa del mio turno per una visita di poco conto. Seduto in quella stanza con quelle altre persone, ho tirato fuori il libro dallo zainetto, ne ho estratto anche i miei occhialetti rossi da lettura, e ho continuato dove mi ero interrotto la notte prima. Ogni tanto alzavo gli occhi per guardarmi intorno.

Il titolo è perfetto, perché è proprio di quello che tratta il libro: fede, speranza e carneficina. Faith, Hope and Carnage, nella versione originale, che suona ancora meglio. C’è l’abisso che può toccare ogni esperienza umana, ci sono l’eroina e un senso religioso inteso come l’ammissione della possibilità dell’esistenza di Dio, c’è la dedizione totale al lavoro creativo che si tramuta a sua volta in esperienza umana ma in grado di aggiungere un livello del tutto nuovo all’esistenza.

Ho fatto la visita, sono uscito, ho provato a fare colazione senza riuscirci – in un bar il pos non funzionava, un altro aveva terminato le brioche, nel terzo c’era una tale folla al bancone che ho perso la pazienza dopo due minuti –, e mi sono fatto ingoiare nuovamente dalla M2, affinché mi riportasse a casa.

E oggi mentre ero qui seduto a tradurre un romanzo ambientato in Australia, non so perché ma mi si è formata nel cervello quest’idea. La scrittura è un ponte. L’arte è un ponte. E un ponte è un gesto di fiducia. È un invito a quelli dall’altro lato. Come dire: “Incontriamoci a metà strada. Oppure posso venire io fino alla vostra sponda, non c’è problema, lo faccio volentieri.” Vuol dire che per riuscire a stabilire un legame tramite l’arte con gli altri individui è necessario svelarci nella nostra umanità più profonda. Perché è solo lì, in quel punto, che si può stabilire davvero un legame. Succede quando ci sentiamo simili ai nostri simili. Succede quando qualcuno canta o scrive qualcosa che coglie la nostra essenza in uno spazio e in un momento determinati, ma che non eravamo in grado di esprimere con quella precisione. E di questo dovremmo sempre essere grati.

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 11 di Awand, primavera 2024.
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