Awand. Rivista analogica di arti e creatività

 

Ero a Padova, per passare un paio di giorni da un amico, un musicista davvero talentuoso che avevo conosciuto mesi prima in una notte di sbronza in Perù.
Viveva in una stanza piccolissima, vicino al Duomo e mi aveva sistemato per terra su un materassino, a lato del suo letto. Nella casa con lui vivevano un astronomo squinternato con la maglia di Star Wars che non usciva mai dalla sua stanza, uno studente croato che è stato responsabile della mia scoperta dell’esistenza dei Ćevapčići e qualcun altro che non ricordo chi fosse. Faceva un lavoro ordinario per mantenersi, ma era in cerca della sua libertà e la incontrava ogni volta che suonava il piano, l’ho ascoltato suonare ovunque, con una passione rara.

Una volta mi accompagnò a Como per un evento di poesia, lo lasciai a zonzo per la città vecchia e al mio ritorno stava suonando in un locale dove aveva visto un piano passeggiando; s’era messo d’accordo col titolare che gli portava assaggi della cucina e bicchieri di vino in cambio della sua musica. Qualche anno dopo avrebbe abbandonato il lavoro ordinario, per trasferirsi in Messico e dedicarsi alla musica, ma questa è un’altra storia.

La città mi aveva attratto da subito, il mio amico conosceva molti posti inusuali che ci davano da bere fino a tardi, panettieri con finestre sulla via dalle quali potevi ordinare pizza e croissant alle tre del mattino e luoghi che parevano calamite che facevano convergere tutti i personaggi più incredibili.

E poi i portici, l’università, le piazze, la Specola, l’orribile lingua del santo in bella vista assieme al suo apparato vocale e alla mascella. Ci ero stato diverse volte e l’unico posto interessante dove non avevo mai messo piede era la cappella degli Scrovegni.
In occasione di quella visita, il giorno seguente, riuscii a prenotare in mattinata, un paio d’ore prima di prendere il treno di ritorno. Raccolsi le mie cose, salutai il mio amico ma non prima di aver preso uno dei suoi ottimi caffè. Ha sempre preparato il caffè con una cura maniacale: annusa la polvere macinata, la dispone con cura nel filtro, si assicura della giustezza del livello dell’acqua nella caldaia, stringe bene la parte superiore e regola il fuoco perché sia molto basso in modo da portare il liquido a una lenta ebollizione.

Davanti alla biglietteria non c’era nessuno. Anche a me pare strano da raccontare perché normalmente per prenotare gli ingressi ci vogliono giorni d’anticipo e la cappella è sempre stipata di turisti, ma quella mattina non c’era nessuno. L’entrata è regolata dal passaggio obbligatorio in una camera di acclimatazione nella quale i visitatori sostano per una decina di minuti, il tempo necessario perché l’aria della camera stessa ritorni a una temperatura compatibile con quella nella cappella, così da proteggere gli affreschi. Pagai, entrai nella stanza e dopo di me arrivarono due turisti giapponesi con una guida. Quattro persone in tutto, una fortuna incredibile.

Appena misi piede nella cappella fui schiacciato da un enorme soffitto blu, un blu accecante che cadendo invadeva tutte le file di rappresentazioni sacre disposte su tre livelli diventando anche il loro cielo. Cominciai a guardarmi attorno ma non riuscivo a distinguere le singole immagini, era come se cogliessi un elemento per ciascuna, un cavallo, una struttura architettonica, un personaggio ma il mio sguardo saltava rapito da un angolo all’altro con la volontà e l’incapacità di percepire un insieme. Mi sentii strano e avvertii un lieve giramento di capo, ma non doloroso, quasi un’ubriacatura morbida che mi faceva sentire debole e mi faceva perdere leggermente l’equilibrio. Una sensazione piacevole di perdita di controllo, che temevo ma alla quale ero spinto ad abbandonarmi. Credo che inconsciamente pensai: “se sono in cerca della libertà, quando si presenta, perché non incontrarla?”

Lasciando piano spazio a questo senso di inadeguatezza mi sentii d’un tratto sopraffatto: stavo per piangere, un pianto liberatorio, gioioso, non avrei voluto trattenerlo ma non volevo neanche sembrare un folle agli occhi dei giapponesi attenti alle spiegazioni sulla tecnica, la volontà dell’artista, le richieste dei mecenati e le solite balle. Ma con la cappella vuota potevo nascondermi dando loro sempre le spalle, libero di far crescere il pianto e quella leggera sensazione di panico fino a quando non esplose in un singhiozzo fuori controllo. Quando il fuoco si spense, per sua natura, la sensazione di spaesamento e di vertigine mi aveva allagato le ossa. Mi sentivo fragile, senza difese, sopraffatto. Scarico ma non debole, con un entusiasmo profondo, una gioia che non riesco ancora a tradurre in parole.

 

Paolo Agrati si occupa principalmente di poesia, scrittura, musica e amenità.

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 6 di Awand, inverno 2022-2023.
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