Awand. Rivista analogica di arti e creatività

 

Sto male, anche fisicamente, se vedo una parete espositiva trascurata o un’opera non adeguatamente valorizzata. Con l’arte ho un rapporto viscerale. Quindi scegliere di parlare di una sola opera con cui provo quelle che chiamo le belle vertigini è una sfida complicata quanto eccitante.

Come spiegare i dipinti a una lepre morta o I like America and America likes me di Beuys, L’efebo di Mozia, La Pietà Rondanini di Michelangelo, La sete di Martini, l’ambiente Spazio Elastico di Colombo, il trittico de Il Giardino delle delizie di Bosch, Allevamento di polvere di Man Ray, Quadrato bianco su sfondo bianco di Malevich… sono troppe le opere che mi lasciano senza fiato. Due però più delle altre hanno su di me l’effetto di un’attrazione irresistibile: Il trasporto di Cristo del Pontormo in Santa Felicita a Firenze e La vocazione di San Matteo del Caravaggio in San Luigi dei Francesi a Roma. Dato che l’ho rivista pochi giorni fa, è di quest’ultima che vi parlerò.

Non è l’abilità pittorica di Caravaggio: certamente la sua tecnica mi rapisce, ma al pari di quella di Raffaello, Rothko e tanti altri; ciò che più mi colpisce tanto da farmi tornare ogni volta che sono a Roma al capezzale di questa vocazione è ben altro.

La maestria assoluta che Caravaggio ha nel comporre le scene in quest’opera tocca il suo apice, per come detta i tempi di lettura e porta lo spettatore a sedersi al tavolo all’interno della taverna (o ufficio della dogana?) insieme ai personaggi dipinti. Ogni volta che guardo questo quadro mi sento come l’alter ego del regista Kurosawa nell’episodio Corvi, il quale di fronte a Il ponte di Langlois di Van Gogh immagina di entrare fisicamente nelle opere e la vita del maestro olandese.

Nelle mie giornate resto spesso rapito dalla bellezza di un gesto o dall’incrinatura perfetta di una voce che interpreta un verso: seppure in sedicesimi si tratta per me di una bellezza paradossale, analoga alla “piccola morte” che si prova durante un orgasmo (donatore di vita). Il realismo fotografico e teatrale tipico della pittura di Caravaggio è solo l’effetto di un altro vero di cui non si parla mai, ben più profondo e contrastato: il vero emotivo, il quale guida dall’interno le azioni-reazioni dei suoi personaggi e detta le forme dei loro gesti e della loro mimica. Questa verità interiore, che non trova eguali in pittura, è una verità inquieta e inguaribile che sento nascere dal disperato amore per la vita che aveva il Merisi, un amore disperato percepibile anche in questo quadro da lui dipinto sul crinale del XVII° secolo.

Nel mio primo incontro dal vivo con la vocazione ho avuto la prova che l’Arte ha il potere di elevarti, malgrado i turisti con cui devi spartire quella mirabile visione; malgrado l’illuminazione a tempo con gettone da 1€; malgrado la balaustra e l’accesso negato all’interno della Cappella Contarelli che ti costringe a vedere l’opera sempre di traverso e mai di fronte. Ricordo che, malgrado tutto, fissando la vocazione riuscii a isolarmi dal quel contesto ostile, restammo soli, lei e io, e vissi la bella vertigine: ovvero ebbi un trasalimento e mi strussi fino alle lacrime per tutta quella inesauribile bellezza nata da quella sua inguaribile inquietudine.

I silent book sono libri senza parole che raccontano storie. Ebbene allo stesso modo questa grande tela 322×340 cm, da schermo cinematografico, potremmo definirla una silent picture che racconta la scena saliente della “vocazione di Matteo”, un uomo che da un momento all’altro ribalta la propria vita, passando da esattore di tasse a uno dei quattro evangelisti che scriverà nero su bianco la parola di Dio. Un Dio non visibile nel quadro ma che sotto forma di luce irrompe di traverso nel buio della taverna, da una finestra ideale, illuminando la scena e la vita di Matteo.

Le parole ne l’Annunciazione tra i santi Ansano e Massima di Simone Martini e Lippo Memmi, che il messaggero di luce rivolge alla giovane Maria, tra le due figure si stagliano in rilievo sulla superficie dorata; l’Arcangelo Gabriele entra e in latino dice alla futura Madonna: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. Siamo di fronte a un protofumetto del 1333 di straordinaria caratura, eppure l’opera di Caravaggio lo supera, di gran lunga, per come ci fa accedere all’indicibile, dimensione propria del mistero divino. Nella vocazione il silenzio metafisico in cui è immersa la scena non è determinato solo dall’uso sapiente del rapporto luce/ombra, ma è anche generato dal dialogo tra Pietro, Matteo e Gesù, che resta celato nel nero del fondale, composto di frasi mute: Caravaggio mette in scena una vocazione senza voce, afona eppure eloquentissima. 

 

Dome Bulfaro, poeta e performer tra i più attivi nello sviluppo della poesia performativa.

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 5 di Awand, autunno 2022.
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