Awand. Rivista analogica di arti e creatività

 

Una volta qui era tutta industria, nei primi anni del Novecento vi si stabilirono — fra le altre — la Falk, La Marelli e la Pirelli. Su quel confine fra Milano e Sesto San Giovanni visibile solo sulle carte geografiche, migliaia e migliaia di metri quadrati di edifici in cui lavoravano migliaia e migliaia di operai. In uno in particolare, quello della Breda, si costruivano dapprima carrozze ferroviarie e poi, con le guerre mondiali in corso, anche aerei, proiettili e altra ferraglia destinata a mantenere la pace, come si usa dire oggi.

Con le grandi dismissioni avviate negli anni Ottanta, paesaggio, attrezzi e frequentazioni di questi luoghi sono profondamente cambiati. L’università Bicocca, il Teatro degli Arcimboldi, i centri commerciali, i multisala, le nuove abitazioni e, dal 2004, l’Hangar Bicocca. Che per intero si chiama Pirelli Hangar Bicocca perché la fondazione che lo ha creato è emanazione di una di quelle industrie di cui abbiamo detto.

Agli inizi l’ingresso era dalla parte opposta a quello attuale, non era ancora la cattedrale dell’arte contemporanea milanese e l’atmosfera post-industriale era ancora più forte di adesso. Le prime mostre arrivarono nel 2005, la personale di Mark Wallinger, Easter, e la collettiva Playground & Toys. Nel tempo in quegli spazi enormi sono passate le opere, le performance e le installazioni di molti dei più importanti nomi dell’arte contemporanea interazionale, da quelli arcinoti come Marina Abramović, Alfredo Jaar, Christian Boltanski, Carsten Nicolai, Tomás Saraceno, Mike Kelley, Carsten Höller, Lucio Fontana, Mario Merz, Chen Zen e Maurizio Cattelan ad altri forse meno popolari, aggettivo da usare con molta cautela in questo ambito.

Mostre che a volte ospitano alcune delle più ostiche proposte contemporanee e a volte diventano veri e propri luna park. Basti ricordare i gonfiabili di Tomás Saraceno che con On space time foam nel 2012 riempì il Cubo (uno dei 3 spazi distinti dell’Hangar insieme alle Navate e allo Shed) con «una struttura fluttuante costituita da tre livelli di pellicole trasparenti praticabile dal pubblico»: si camminava, si strisciava, si affondava su un gigantesco materasso gonfiabile che cambiava forma e altezza in continuazione, e si poteva vedere chi arrancava al livello inferiore e superiore, oppure ci si limitava ad osservare tutto restando tranquilli al piano terra. Con Doubt di Carsten Höller (2016) si saliva sul calcinculo più lento del mondo, fra luminarie che neppure a  Lecce nel giorno di Sant’Oronzo. Con Visitors di Ragnar Kjartansson (2012) si era circondati da 9 grandi schermi su cui scorrevano in simultanea le immagini delle stanze di una grande casa e dei suoi abitanti, mentre una nenia incessante ripeteva le sue strofe (once again I fall into my feminine ways...).

Mostre che a volte sembrano molto lontane dalla quotidianità, dai fatti del mondo e a volte ci sbattono contro, come la bellissima Not afraid of the dark del 2007 in cui Bartolomeo Pietromarchi concentrò i lavori di Fabio Mauri, Kutlug Ataman, Jenny Holzer e Willian Kentridge, fra gli altri.

Mostre temporanee — a volte affollate come una delle week milanesi, a volte semi-deserte come un qualsiasi museo dimenticato — a cui fanno da sentinella austeri, misteriosi, imponenti, sorprendenti i Sette palazzi celesti di Anselm Kiefer, la gigantesca installazione che occupa una delle tre navate e che «deve il suo nome ai Palazzi descritti nell’antico trattato ebraico Sefer Hechalot, il “Libro dei Palazzi/Santuari” risalente al V-VI secolo d.C., in cui si narra il simbolico cammino d’iniziazione spirituale di colui che vuole avvicinarsi al cospetto di Dio.» Sette torri alte fra i 13 e i 19 metri ai cui piedi detriti, libri di piombo, frammenti di vetro e pellicola, piccole foto stanno via via scomparendo col passare delle stagioni ma soprattutto dei visitatori. Intorno ad essi, dal 2015, cinque enormi tele che lo stesso Kiefer ha realizzato adottando la scala tanto cara a uno dei suoi miti, Jacopo Robusti, il Tintoretto. Infatti sarebbe meglio chiamarli teleri, come farebbero nel Cinquecento a Venezia.

Questo all’interno dell’Hangar, all’esterno la monumentale Sequenza di Fausto Melotti e il murale Efêmero di Osgemos, ovvero i fratelli Gustavo e Otávio Pandolfo.

Spazi, opere e budget enormi in un luogo dell’arte in cui non mancano i mediatori culturali pronti a fornire delucidazioni, il bistrot, lo spazio per i bambini e il bookshop.

L’ingresso è gratuito, non è un dettaglio secondario.

 

 

La foto è tratta da pirellihangarbicocca.org

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 6 di Awand, inverno 2022-2023.
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Antonio Ant Cornacchia
Antonio Ant Cornacchia
Grafico, art director, giornalista. Ha studiato all'Accademia delle Belle Arti. È il fondatore e direttore di Awand. C'è chi lo chiama Ant, che sta per formica.

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