Awand. Rivista analogica di arti e creatività

Nel 2005 il fumettista scriveva così sul suo blog: «Ma quanto chiacchiero? Spero di non esagerare. Questa è una nuova intervista fatta con Antonio Cornacchia su Creativo Social Club. Le domande erano interessanti e io non ho resistito alla tentazione di raccontare.»

 

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Gipi a Cartoomics 2017. © Foto di Antonio Cornacchia

 

 

Vorrei partire da una mia personale suggestione. Io trovo, nel tuo modo di raccontare storie, una qualche parentela con alcuni film di Clint Eastwood. Mi spiego. Una narrazione “classica”, con uno svolgimento che fa sì uso di “trucchi” di sceneggiatura, ma che non se ne lascia sopraffare. E così con le immagini. Arrivi ad usare la pittura ad olio - una follia per qualsiasi manuale di fumetto - eppure tutto sembra perfettamente funzionale alla storia. Il mezzo arricchisce lo svolgersi degli accadimenti, lo rafforza ma non lo sostituisce.  Ecco. Io trovo che la forza dei tuoi lavori stia - anche - in questa genuinità del narrare. Credo sia questa la differenza fra una storia in cui si ha qualcosa da dire, perchè se ne sente il bisogno, e una in cui si fa ricorso a tutti i “trucchi” per coprirne il vuoto. Quando penso ai tuoi lavori per Coconino, penso a Million dollar baby o Mystic river. Storie piccole e maestose allo stesso tempo, in cui la perfezione matematica della sceneggiatura non ha bisogno di nascondersi dietro una fotografia (o recitazione) ruffiana. Eastwood non avrà inventato nulla ma quello che fa lo fa da dio, mi ripeto alla fine di questi film. Ti ci riconosci?

Million Dollar Baby non l’ho ancora visto, ma Igort (disegnatore e mio editore Coconino) me ne ha parlato con un tono furbino, dicendo che secondo lui mi sarebbe piaciuto molto. Insomma, credo che intendesse che aveva trovato delle affinità con il mio lavoro. Lo vedrò. Mystic River è un film che mi è piaciuto molto. L’idea della trasmissione del male e la tendenza a “diffidare delle vittime” che si trova nella storia mi hanno veramente affascinato. Mi interessa la narrazione lineare, senza strappi. Semplice. Vorrei riuscire a trattare argomenti complessi nel modo più semplice possibile.
Fondamentalmente, in ogni campo artistico, ho una profonda avversione per “le figate”. Per le trovate ad effetto, i trucchi stilosi. Ho avversione per questo atteggiamento nella pittura come nel cinema e, naturalmente, nelle storie a fumetti. Spero davvero di possedere una “genuinità” nella narrazione. Sarebbe una buona cosa. Ci provo comunque.
Ho un metodo che consiste nel non fidarmi di me stesso. Mi considero un prodotto tipico della società dei consumi e dello spettacolo televisivo, quindi parto dal presupposto di avere un immaginario ”sbagliato” e irreale. Così tengo d’occhio le idee che mi si presentano alla mente come “intuizioni”. Quando poi mi appaiono come “intuizioni geniali” allora mi si accende l’allarme rosso e comincio a pensare che ci sia qualcosa che non va. Mi fermo. Provo a cercare dentro di me uno sguardo meno corrotto. Mi illudo a volte di trovarlo. Mi illudo, ripeto.

Quanto è importante la disciplina in quello che fai? e quanto - ovviamente - la sua assenza, lo scarto, la deroga, l’eccezione.

Difficile dirlo. Anche qui siamo nel campo delle cose che poco controllo. Ci sono momenti in cui dovrei stare al tavolo a lavorare e invece mi ritrovo a farmi continui attentati, ad inventare modi per perdere tempo, per fare altro. Capita però che, con il senno di poi, mi trovi a scoprire che quegli attentati erano “utili”. Faccio un esempio per non parlare in modo troppo astruso: in questi giorni sto lavorando al libro nuovo (“La stanza” sarà forse il titolo definitivo) per Gallimard. È un lavoro importante, per un editore molto prestigioso ed ho poco tempo a disposizione.
Bene: mi sono trovato ad inventarmi il soggetto per un possibile film, mi è venuta voglia di andare al mare ed abbronzarmi (cosa rarissima, per me)  ed altre strane tentazioni. Così ho trascorso giorni senza lavorare al libro, con la coscienza che mi mordeva i polpacci (la mia coscienza è bassa). Poi sono tornato al lavoro ed ho scoperto che il sole mi aveva dato idee per le luci della scena e molte parti della sceneggiatura non funzionavano e ho dovuto riscriverle. Se non mi fossi “bloccato” non me ne sarei accorto, la storia sarebbe uscita più debole. A volte (quando sono ottimista) penso di avere dentro di me una persona sconosciuta e più accorta di quanto io non sia. Questa persona mi fa fare cose diverse, a volte, che si rivelano positive. Mi fa anche staccare dal lavoro, quando serve. Io non lo farei e allora lei si inventa modi diversi.
Torno alla disciplina. Per lavorare bene mi devo svegliare presto. Devo mettermi al tavolo PRIMA che altre tentazioni si affaccino alla mia giornata. A volte penso che ci sia una certa incompatibilità tra lo ”stare al mondo” e lo “stare al mondo raccontando”. Il fatto di chiudersi in una stanza per mesi a scrivere e disegnare mentre fuori scorrono le primavere è abbastanza folle, se ci pensi bene. Io devo evitare di ricordarlo. Devo restare nella storia senza guardare fuori dalla finestra di casa. Devo convincermi che il mondo che conta è quello che sto scrivendo e che l’altro (quello reale) è sostanzialmente privo di interesse.

Credi ci siano in circolazione autori (ovviamente non solo di fumetti) nel cui lavoro trovi delle affinità? non parlo dei tuoi riferimenti (quelli da cui in qualche modo hai preso coscenza del tuo voler narrare) ma coloro che senti compagni di strada.

Sicuramente ci sono. Io non conosco molto del mondo della cultura e dell’arte. Sono un ignorante che cerca di imparare e rimediare ad anni vissuti all’insegna del menefreghismo assoluto nei confronti del mondo. Non mi piace l’idea di fare una lista, però sento come “compagni di strada” altri autori che hanno scelto di guardare le cose partendo da un punto di vista almeno minimamente autentico. È uno sforzo. Non essere americani ad esempio, non è facile. Trovo affinità con il lavoro di registi come Garrone o Gaglianone e sicuramente con autori come David B. o Igort o Giacomo Nanni, Amanda Vahamaki, Andrea Bruno, Michelangelo Setola, ecco che ho fatto una lista ed ho dimenticato moltissimi nomi importanti. Mi fermo subito. Il fatto è che queste affinità sono difficilmente di carattere estetico, sono piuttosto interessato all’aspetto etico. Il modo in cui un autore si pone nei confronti del lavoro mi interessa forse di più del lavoro stesso. Immagino che questo sia un approccio sbagliato, ma mentirei se dicessi il contrario.

Mi parli di Matteo Garrone (il regista di “L’imbalsamatore” e “Primo amore”). Non ci avevo pensato ma mi pare ci sia un dato molto forte in comune. Nei suoi film i personaggi parlano con un fortissimo accento (napoletano o veneto), i luoghi sono riconoscibili, eppure tutto potrebbe essere traslato in Australia, in Canada senza perdere credibilità. Un po’ quello che tu dici (intervista di Roberto La Forgia) sta succedendo al tuo “Appunti per una storia di guerra”, il libro la cui traduzione per la Francia prevede il cambio dei nomi dei luoghi. Questo credo abbia a che fare con la classicità. Ovvero con la capacità di un’opera di andare oltre il proprio tempo e il proprio ambito per diventare, appunto, un classico. E mi pare paradossale che di solito quando si parla di classicità si pensi subito a qualcosa di paludato, ammuffito, senza vitalità. Di contro invece si tende ad esaltare quello che con un paio di figate si spaccia per “nuovo” (penso ai patetici tentativi di certa arte elettronica, vecchia e inutile dopo un paio d’anni). Scòzzari ci ha anche disegnato molto tempo fa: “Il nuovo è sempre meglio del diverso”. Cos’è, la dittatura della moda? la necessità di vendere merce nuova ad ogni stagione?

Il mercato vende le novità, è normale. Ed è normale che spesso alla novità non sia affiancato uno spessore sufficiente. La cosa comunque non mi preoccupa. Non mi pongo il problema. Scrivo e disegno storie per una esigenza personale. Se un giorno dovesse venire ”la moda delle graphic novel” mi ritroverei ad essere di moda. Potrebbe essere divertente ma credo che (più probabilmente) non me ne importerebbe niente. Non credo nemmeno che ci siano artisti che lavorano seguendo una moda. Non credo che questo accada coscientemente in sostanza, è solo che viviamo nella società dei consumi e se non si sta attenti (sempre sempre sempre) ci si trasforma. È un attimo. Si abbassa la guardia e ci si trova trasformati.

Quando si fa sentire l’esigenza di narrare? quando è che sai che è arrivato il momento di mettere in scena una storia?

Difficile dirlo. Sembra che le storie siano da qualche parte, nei pensieri. Spesso hanno forme diverse per cui non le riconosco come storie che vogliono essere raccontate. A volte sembrano pensieri ”normali”. Sentimenti comuni come l’indignazione o la gioia, l’amore e che si ripresentano all’attenzione in modo ciclico. Poi, solitamente accade che questi pensieri si trasformino in azione. Mi trovo improvvisamente ad immaginare scene complete che fanno da motore per la scrittura. È qualcosa su cui non ho un grande controllo. Il passaggio dal pensiero all’azione è per me tutt’ora un grande mistero. Quando un pensiero diviene azione ha già in se buona parte dell’idea della storia. L’ambientazione, i personaggi. È una cosa strana, come se “vedessi” le prime scene e mi ritrovo a scriverle. Mentre scrivo sento i personaggi parlare e li trascrivo. Spero di non passare per medium descrivendo questo processo. Questa è comunque la prima fase del lavoro. Solitamente il novanta per cento delle cose scritte durante questo trasporto si rivela essere strutturalmente molto debole. Allora ci lavoro su. Cerco di capire le motivazioni interne che hanno generato quel pensiero e quell’argomento. Di solito arrivo a scoprire le motivazioni profonde, magari in cose che mi sono accadute e mi hanno colpito o in riflessioni che ho fatto a proposito di situazioni reali. Per me è molto importante capire la motivazione profonda. È una specie di ancora di salvezza durante il lavoro. Mi dice “di che cosa parla la storia”, mi aiuta a trovare il finale ed il comportamento dei personaggi.

Hai mai pensato di ritagliarti il ruolo di puro interprete? del tipo prendere una tragedia greca, una canzone di Capossela e filtrarla attraverso la tua sensibilità, i tuoi acquarelli.

No. Non rientra nelle cose che mi piacciono. Non ho uno spirito sensibile in questo senso. Ho amici autori che sono veramente ispirati da altri artisti, da musicisti del passato o da figure importanti della letteratura. A me questo non accade. Non so perchè. Credo che sia legato all’ignoranza di fondo che mi porto dentro. Non ho mai una vera e completa partecipazione al lavoro altrui. Credo che sia un difetto. Lo è di certo. Ma è un dato di fatto. E poi ho un modo di scrivere e lavorare che prevede continue modifiche in corso d’opera. Fino all’ultimo istante le cose possono cambiare. Questo è un tipo di attitudine che mal si addice al lavoro su un materiale fatto da altri, già terminato e concluso.

Le prime volte che ho visto la tua firma (su Cuore credo) ricordo di aver avuto l’impressione di immagini “rozze”, quasi non all’altezza del contesto. Non avendole ora a portata di mano non saprei dirti se quell’impressione fosse solo un mio abbaglio. Anni dopo ti ho ”ritrovato” con una qualità straordinaria. Che rapporto hai con la tecnica?

La tecnica è stata una ossessione fino ai 30 anni. Volevo disegnare ”bene”. Qualunque cosa questo possa significare. Sperimentavo, provavo tecniche e materiali diversi. Ero bravo, ma non avevo niente da dire. I primi disegni su Cuore rappresentano per me l’abbandono di questo desiderio infantile di “far bella figura” con il disegno. Quando iniziai a lavorare per il giornale ero arrabbiato, Berlusconi aveva appena vinto le elezioni (1994) e io vedevo concretizzato al governo del paese tutto un catalogo di atteggiamenti e modi di vivere che mi ripugnano profondamente. Avevo delle cose da scrivere. Non mi importava del disegno.
Anni dopo ho recuperato la passione per il disegno, per la luce e le forme. Diciamo che sono cambiate le esigenze. Alcuni concetti venivano trasmessi più efficacemente con la pittura e il disegni. Ma, comunque, queste pitture e questi disegni erano sempre subordinati alla storia da raccontare.
Ho enormi difficoltà a disegnare senza una motivazione profonda. In sostanza non lo faccio proprio. A volte mi dispiace, sopratutto quando mi trovo con disegnatori giovani che hanno la passione del disegno per il disegno. Li invidio, anche se solo per un secondo.

Se ho capito bene, tu insegni anche. Mi racconti il mondo degli apprendisti disegnatori? cosa pensano di avere davanti? cosa li spinge verso questo mestiere? cosa ti piace e cosa non ti piace di chi inizia adesso?

Gli apprendisti disegnatori che ho incontrato nelle scuole dove ho insegnato finora sono sopratutto apprendisti esseri umani. Voglio dire che la questione disegno è secondaria ad una più vasta gamma di capacità che un aspirante scrittore o disegnatore (o essere umano, comunque) dovrebbe apprendere. La prima, fondamentale secondo il mio punto di vista, è la capacità di vedere le cose con il proprio sguardo. Sembra una banalità ma è stupefacente quanto della nostra fantasia in realtà non ci appartenga realmente, quanto i nostri gusti (la nostra vista addirittura) sia indotta dall’esterno. Sono convinto che per raccontare sia necessario sviluppare una propria originale capacità di vedere. A questa capacità è legato lo stile, il taglio del racconto.
Se prendo una delle mie classi e chiedo di mimare una sparatoria tutti si mettono in pose da gangster del cinema. Questo è un esempio di fantasia standardizzata. Il mio lavoro con i ragazzi finora è consistito nel mettere in atto una serie di esercizi per sviluppare una propria capacità di vedere le cose e quindi una fantasia quanto possibile personale. L’osservazione della realtà è il metodo. Mando i ragazzi a fare dei reportage disegnati di posti che conoscono. Voglio che mi raccontino cosa vedono e che facciano disegni dal vero.
Questo esercizio li obbliga (quando le cose vanno bene) a vedere le cose di tutti i giorni in modo diverso dal solito. Questa differente profondità di sguardo (necessaria per disegnare dal vero e per raccontare) gli fa spesso scoprire nuovi sottili strati di realtà. Se questo accade, è possibile che si sia dato inzio ad un percorso di rivelazione personale.
I disegnatori che non fanno questo percorso sono costretti a costruire il proprio immaginario su quello di altri. Va benissimo, ma non è una cosa che mi interessa.
Personalmente, so quale profondità di sensazioni ricevo quando vedo un lavoro fatto da qualcuno che ha “visto” davvero le cose. E questo indipendentemente dalla qualità grafica del lavoro.

Il fumetto, soprattutto se non seriale, è un mezzo di nicchia, mi sembra inutile far recriminazioni sui perchè e i per come. Di fatto è così. Ora e qui in Italia, almeno. Questo ti fa rosicare o sei fra quelli che se ne fregano e si beano della condizione di ”artista incompreso”?

Non mi fa rosicare. Mi dispiace un poco perchè è una strada molto dura per i ragazzi giovani con cui sono in contatto. E mi dispiace che in Italia il pubblico dei fumetti sia adolescenziale e orientato quasi esclusivamente verso manga e seriale. Non rosico, lavoro con la Francia dove i miei libri stanno andando molto bene. “Appunti per una storia di guerra” ha avuto pochissime recensioni in italia ed in Francia è stato recensito sui maggiori giornali, ed è considerato un “coup de coeur” come dicono loro. In tre mesi ho venduto quattro volte quello che avevo venduto in italia in un anno. Adesso sto lavorando al nuovo libro che uscirà per Gallimard, mentre il precedente è uscito con Actes Sud. Sono due case editrici di letteratura, ed anche questo credo che sia rivelatore. C’è una attenzione enorme verso questo mestiere ed una grande serietà nel leggerlo e criticarlo. Questa serietà è uno stimolo molto forte nel lavoro. “Gli Innocenti” (Coconino/Vertige Graphic) verrà stampato in quattro diverse nazioni. “Esterno Notte” sta per uscire in Germania, Francia e Spagna. In Italia, quando dico che faccio romanzi a fumetti storcono il naso e poi mi domandano: “Ah si? E quale personaggio disegni?”.

 

gipi cartoomics 2017 awand antoniocornacchia

 

Non per niente Tuveri (Igort) e la Coconino sembrano avere i piedi ben piantati in Francia. A proposito di Coconino ed editori, perchè non si riesce a trovare più una rivista che sia una nelle edicole? Possibile che non ci siano strade intermedie fra il ciclostile delle autoproduzioni e gli almanacchi semestrali come Black? Possibile che non ci siano abbastanza persone a cui interessi conoscere il proprio presente attraverso la griglia di un fumetto, che non voglia solo il puro intrattenimento sul modello Bonelli?

Possibile. Queste domande andrebbero girate ad Igort che ne sa molto più di me. Tuttavia, spesso c’è proprio un problema di conoscenza del lavoro. Ho visto lettori di fumetto seriale innamorarsi di graphic novel una volta che qualcuno si è preso la briga di segnalarne loro l’esistenza. Molti ragazzi con cui ho avuto a che fare nei vari corsi che ho tenuto erano semplicemente all’oscuro dell’esistenza di un racconto a fumetti “altro”. Molti di questi adesso sono lettori di David B. di Igort, di Sfar o miei. C’è, in sostanza, una battaglia da portare avanti per far conoscere questo genere di racconto. Si può fare, anche se è faticosa e l’italia non è proprio il posto più adatto per qualsivoglia battaglia di stampo anche solo minimamente culturale.

Anni fa chiesi a Enzo Siciliano cosa pensasse della televisione e come vivesse lui, autore e critico letterario, questa “subalternità” di qualsiasi mezzo all’unico realmente di massa in italia. La risposta non la ricordo esattamente, però certo non ne era entusiasta. Non molto dopo, lui divenne presidente della RAI. E la RAI continuò però ad essere il solito pachiderma spargiletame. Mi dici che rapporto hai tu con la televisione? la guardi, la ignori, ti fa schifo...? pensi mai a cosa potrebbe essere e non è?

La guardo. Ma la guardo molto meno rispetto al passato. Ho sempre paura di finire con lo scambiare le esperienze televisive con le esperienze reali. Spesso provo una grande tristezza pensando alla potenza del mezzo ed all’uso demente e distruttivo che ne viene fatto. È davvero incredibile, ma questo accade anche con il cinema. In teoria, questi due mezzi potevano essere utilizzati per creare coscienza. Invece vengono utilizzati quasi esclusivamente per distruggerla. Qui però rischiamo di finire sul concetto di ”divertimento e distrazione”, argomenti riguardo ai quali ho posizioni più simili a quelle di Don Milani che di Maurizio Costanzo. Comunque, non vedo messa bene la tv. Mi sembra sempre più un pianeta a se, popolato da alieni che parlano solo di loro tra di loro. Alieni non è un termine a caso. Mi dispiace per i vecchi. Molti vecchi concludono la loro vita davanti ai teleschermi. Bombardati da stronzate. È una cosa davvero triste.

Sei riuscito a farti un ritratto del tuo lettore tipo? attraverso le presentazioni, il sito, le fiere immagino che molti ti abbiano contattato, scritto. Per un narratore “viscerale” come te sono portato a credere che il feedback, il ritorno delle emozioni sia importante. Sbaglio?

Non sbagli. Io soffro di dipendenza dal giudizio altrui. Questa è una cosa che non riguarda soltanto la vanità ma tocca un lato ben preciso del mio modo di lavorare.
Quando sono su una storia perdo quasi completamente la capacità di giudizio complessivo del lavoro. Certo so giudicare se una scena funziona, ma il racconto finito, nell’insieme, è qualcosa che mi sfugge. Le opinioni dei lettori sono qualcosa con cui io stesso costruisco il mio giudizio postumo sul lavoro. Forse non completamente, in effetti, ma in parte è proprio così. Credo che anche questo non sia un aspetto molto positivo.

Le tue tavole. Le onomatopee sono quasi assenti. Assieme ai bellissimi campi lunghi e lunghissimi, le linee d’orizzonte bassissime, questo fa sì che esse risultino silenti. Si ha l’impressione che tu tenda a depurarle dal rumore di fondo. Che ruolo ha in questo la musica? dal tuo blog vedo che la storia in costruzione narra di ragazzi che suonano. E leggo anche di una tua chitarra elettrica.

Ho sempre suonato. Da ragazzino il pianoforte, poi il basso, la chitarra. Durante l’adolescenza cantavo in un gruppo hardcore. Andare in giro e fare concerti è stata una esperienza bellissima. Però suono male. Non mi sono mai dedicato abbastanza. Se c’è un legame con il disegno sta nel ritmo e nel voler sempre suscitare una idea di ”musica” con la scansione del racconto.
Nella mia testolina io “sento” tappeti sonori quando disegno una scena con campo aperto e sento ritmo quando tengo un dialogo o una azione serrata. Però non lavoro quasi mai con la musica. Solo in questi ultimi giorni, sto ascoltando alcuni album dei Nine Inch Nails in modo abbastanza ossessivo. Non sono un esperto di musica comunque e sono slegato dall’avanguardia. Ho amici giovani che mi informano e mi fanno sentire cose nuove.

Chiuderei con una curiosità. Cosa pensi del fumetto da parete? intendo delle tavole esposte in mostra. Sono un’aberrazione o credi che sia una dimensione, anche quella, importante?

Mai ritenuta una dimensione importante. Per me il lavoro finito è il libro stampato. Non ho cura degli originali, non mi interessano. Certo, in alcune fasi della mia breve vita di disegnatore, la vendita degli originali mi ha salvato dal fare la fame. Ben vengano quindi collezionisti ed espositori, hanno una passione che non condivido ma che mi ha salvato più volte. E comunque, vedere originali per un disegnatore è importante e quindi sono importanti le mostre. Si capiscono un sacco di cose vedendo delle pagine originali. Ricordo che avevo diciotto anni, per un caso mi trovai in mano le tavole della prima storia di Rank Xerox disegnata da Tanino Liberatore. Mi sembrava una magia. È una sensazione che non ho mai più dimenticato.

 

 

30 maggio del 2005 (Pubblicata su Creativo Social Club)
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Antonio Ant Cornacchia
Antonio Ant Cornacchia
Grafico, art director, giornalista. Ha studiato all'Accademia delle Belle Arti. È il fondatore e direttore di Awand. C'è chi lo chiama Ant, che sta per formica.

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