Awand. Rivista analogica di arti e creatività

FOTOGRAFIA. «In questa mia personale fase storica sto cercando di fare un passo indietro, sto cercando di togliere elementi, ritenendo sempre l’estetica importante ma evitando che diventi una barriera per il contenuto. Non si può usare sempre la stessa cifra stilistica, lo stesso modo narrativo per delle storie diverse.»

giovanni cocco

Dettaglio di una foto di Giovanni Cocco dalla serie Forgotten memories

 

Come nasce il lavoro di un artista e come nasce il tuo interesse per la fotografia?

Sono stato figlio di un fotografo amatore negli anni Settanta, mio padre aveva una camera oscura, sin da piccolo mi ha mostrato la magia dell’immagine che si forma su una foglio di carta; questa cosa ovviamente mi ha affascinato tantissimo. Ho iniziato perché mi divertiva e mi veniva bene, mi piaceva. Poi crescendo, quando sono maturato, mi sono reso conto che la fotografia era un buonissimo mezzo per dire quello che ho da dire, non essendo capace io di scrivere o di disegnare, tanto meno di parlare. Così, grazie all’aiuto di persone che ho incontrato sul mio cammino — veri e propri mentor — mi sono concentrato sulla costruzione di storie più o meno personali che raccontano qualcosa di me e del mondo.

Qual è stato il momento che ha segnato definitivamente la svolta, il punto in cui hai capito che questa sarebbe stata la tua professione e non un semplice hobby.

Io vengo da Sulmona, una piccola cittadina in Abruzzo, e fino a quel giorno avevo fotografato solo ed esclusivamente qualsiasi cosa succedesse in Abruzzo: tradizioni popolari, paesaggi, fiori, piante, farfalle. Avevo il piacere di stare con la macchina fotografica a scattare, non avevo mai avuto intenzione di creare una progettualità di tipo lavorativo, un progetto per provare a denunciare qualcosa. Lo facevo perché mi faceva stare bene, era la mia via di fuga. Un giorno ho incontrato a Sulmona un fotografo della Magnum, uno dei miei miti, David Alan Harvey. Stava realizzando un reportage per il National Geographic sui popoli italici. Abbiamo passato alcuni giorni insieme, l’ho portato in giro, poi mi ha chiesto di vedere le mie fotografie e mi ha detto che avevo talento, che dovevo smettere di fotografare l’Abruzzo. Ho lasciato tutto per andare a fare il mio primo reportage a Sarajevo. Erano passati 15 anni dalla fine della guerra e volevo vedere com’era, sono andato a confrontarmi con la mia prima realtà importante, con una progettualità, un’idea su come raccontare qualcosa.

Hai parlato di David Alan Harvey come di uno dei tuoi miti. Oltre lui, a quali altri maestri ti sei ispirato?

Nella prima fase i miei principali riferimenti sono stati quelli della cosiddetta scuola americana.
Grandi fotografi di National Geographic come William Albert Allard e tutta la scuola del colore degli anni ‘70 mi hanno ispirato tantissimo, rappresentavano quello che volevo fare. Poi ho incontrato sul mio percorso tanti bravi fotografi, ma soprattutto uomini interessanti che mi hanno aiutato a crescere come Francesco Zizola, Paolo Pellegrin, Stefano De Luigi e altri, persone che mi hanno dato tanto e dalle quali ho preso piccoli pezzi che poi ho portato nel mio modo di fare fotografia.

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 8 di Awand, estate 2023.
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Mino Vicenti
Mino Vicenti

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