Awand. Rivista analogica di arti e creatività

Il regista di Diaz, Prima che la notte e Sole cuore amore sconfessa chi dà per morto il cinema, ma «Il cineasta medio italiano è maschio, bianco, ricco e piuttosto in là con l’età. Bisogna cambiare questa fotografia per modificare un po’ l’andamento della nostra cinematografia».

 

Daniele Vicari in un ritratto di Alfredo Falvo

 

Il rock è morto, la pittura è morta, la politica è morta... quante volte ascoltiamo e leggiamo affermazioni di questo tipo? È sufficiente che qualcuno non si riconosca nell’evoluzione del linguaggio o della prassi perché invochi l’estrema unzione per una forma d’arte o un’attività umana in realtà indifferente ai nostri giudizi. Daniele Vicari, uno dei più importanti registi italiani, ha dedicato Il cinema, l’immortale — libro pubblicato da Einaudi — a chi negli ultimi tempi ha stabilito che a tirare le cuoia sia stata, appunto, l’arte cinematografica. Del volume e di molto altro abbiamo parlato con l’autore di Diaz, uno dei rari esempi contrari in un cinema italiano contemporaneo «che ha un problema con la realtà». .

AC Come si è formato il tuo gusto visivo? è stata una formazione tutta interna al linguaggio cinematografico?

Come diceva il grandissimo pittore francese Delaunay, è l’ambiente nel quale cresci che ti forma. Io sono nato e cresciuto in montagna, per me il rapporto fisico con le cose è determinante. Ha a che fare con l’esigenza di sentire il peso specifico delle immagini, senza non capiamo la differenza tra un’immagine e l’altra. Ho incontrato il cinema molto tardi, dopo i miei studi tecnici. Fino ai venti anni non sono mai andato al cinema. Ho avuto una formazione più tarda rispetto a quella classica, quindi forse più pensata, più razionale che emotiva.

SL All’interno di questo percorso ci sono dei momenti che hanno cambiato il tuo modo di vedere il cinema?

Alla metà degli anni ‘80, quando ho visto al cinema Full Metal Jacket. Fino ad allora non avevo mai considerato il fatto che un film potesse cambiare il mio modo di vedere le cose. Quel film ha cambiato la percezione che avevo del cinema; mi ha posto una questione: come mai questa opera mi ha così sconvolto? Non era la violenza, avevo visto ben di peggio. L’ho capito quando ho scoperto che Kubrick era un grande autore e che faceva un discorso che si sposava con certi miei sentimenti: Dio non esiste e gli esseri umani sono da soli a combattere tra di loro, non hanno altre possibilità se non relazionarsi con questa lotta. Il pessimismo che c’è nei film di Kubrick incontrava la sensazione che io vivevo quando ero ragazzo.

AC Ed è lì che hai cominciato a pensare di fare cinema?

No, non ancora. Dopo aver preso il diploma, ho lavorato in cantiere con mio padre, io facendo il manovale lui il muratore. Ho anche visitato degli stabilimenti dove avrei potuto lavorare come perito tecnico, tutto il giorno vestito con il camice bianco davanti a un banco in un ambiente asettico. Mi ha terrorizzato l’idea e ho deciso che mi sarei iscritto all’università, forse a Fisica o Ingegneria. Quando sono andato a Roma mi sono iscritto a Lettere invece, perché lì c’erano un sacco di belle ragazze. All’inizio dei corsi sono entrato nell’Aula 1: buio e silenzio, viene proiettato un film in bianco e nero, Ossessione di Luchino Visconti. Finita la proiezione, un signore — che poi ho scoperto essere il grandissimo critico cinematografico Guido Aristarco — ha parlato per due ore di quel film. Non avrei mai pensato che si potesse parlare per due ore di un film. Non sono riuscito a prendere un solo appunto perché, totalmente ignorante, non ho capito tutti i riferimenti culturali, storici, politici, estetici che lui ha fatto, ma quel lungo discorso mi è piaciuto da morire, mi ha restituito tante sensazioni che in maniera non strutturata, non organizzata avevo ricevuto fino al giorno prima guardando i film in televisione.

SL Hai cominciato con il documentario, e nel tuo ultimo libro definisci il regista di documentari “l’eroe del cinema del futuro”. È diventato difficile raccontare la realtà attraverso il cinema?

Io ho la sensazione fortissima che il cinema in generale oggi consideri svilente raccontare la realtà. Come essere umano la grande domanda che io mi faccio è sulla realtà che mi circonda. La cosa più difficile da conoscere è la realtà, perché ha una quantità di sfaccettature e una complessità che fanno sì che addirittura io possa perdermi nell’esistenza. Non capisco come un cineasta possa completamente disinteressarsi di quella cosa che chiamiamo realtà, come articolazione dell’esistenza. È chiaro che il cinema contemporaneo, grazie allo sviluppo meraviglioso delle tecnologie e attraverso il linguaggio digitale, ci ha regalato la chance di sospendere la realtà in maniera radicale ed esistere con la nostra coscienza nella virtualità. Possiamo realizzare delle straordinarie opere del tutto analoghe a quella cosa che una volta chiamavamo poesia, ambientate in questo luogo ipotetico che è il luogo della virtualità. La poesia con la realtà ha poco a che fare, ha a che fare con lo spirito, l’esprit come lo chiamano i francesi, di chi si esprime, con la sua individualità più profonda, i suoi sentimenti più indicibili. Proprio per questo chi ha il coraggio, la forza, la determinazione di avventurarsi in una realtà, quella che ci circonda, sempre più difficile da conoscere, è il mio eroe.

SL Sul versante della distribuzione non pensi che ci sia un problema di fruizione del cinema documentario in Italia?

In Italia abbiamo un problema grosso come una montagna che ha a che fare con la distribuzione in generale delle opere cinematografiche. Ci sono delle zone del nostro paese dove non ci sono le sale cinematografiche. In Calabria c’è uno schermo ogni mezzo milione di abitanti. Come siamo noi arrivati a questo punto è un discorso lunghissimo, che io in parte cerco di fare nel mio libro. Questa mancanza di sale cinematografiche impatta in maniera devastante sul cinema in generale e in particolare sul cinema documentario perché per motivi storici, politici e filosofici nel nostro paese, anche nel mondo del cinema stesso, non è considerato in tutta la sua potenza e in tutte le sue sfaccettature. È un problema anche di carattere culturale. Nel mondo la produzione cinematografica, anche quella documentaria, è esplosa. I primi 15 paesi al mondo producono 9.000 film l’anno, il che significa che negli altri 175 paesi che si riconoscono nell’ONU si produce un numero di film che noi non conosciamo. Fermandoci solo al cinema europeo o a quello africano, chi può vedere 1.500 film l’anno? Questo enorme sviluppo tecnologico, che ha portato a questa esplosione di produzione cinematografica e audiovisiva ha prodotto anche dei sistemi che stiamo cominciando a conoscere ma che secondo me non sappiamo ancora utilizzare, le cosiddette piattaforme. Sistemi che non hanno il limite della linearità, come la sala in cui posso programmare al massimo 12 film al giorno. In una piattaforma io posso mettere uno sopra l’altro virtualmente un numero di film che assomiglia di più alla produzione globale rispetto all’infimo numero di film frutto delle scelte inevitabilmente discutibili che fanno i nostri distributori e i nostri esercenti. Il problema numero uno delle piattaforme è la loro caratteristica fortemente finanziaria e commerciale. La stessa delle grandi case cinematografiche. Se andiamo indietro nel tempo scopriamo che i registi probabilmente più interessanti della storia del cinema sono stati estromessi molto violentemente dal processo produttivo. Oggi è possibile fare dei film anche senza avere la Warner Bros alle spalle. Se anziché seguire una vetusta classificazione dell’immaginario cinematografico per generi cinematografici, noi usassimo delle altre parole chiave scopriremmo che i menu delle piattaforme sono anche dei potenti motori di ricerca e scopriremmo che esiste un cinema che non prendiamo in considerazione. Anche i grandi festival vanno sul sicuro, rappresentano il cinema occidentale, bianco e soprattutto non conflittuale. Film che non rompono i coglioni al mondo. Ci sono però persone come Adriano Aprà, uno dei più grandi critici del cinema italiano ed europeo, che ha 80 anni e fa un suo piccolo festival cercando nel mare magnum della produzione nazionale dei film fuori dai criteri che conosciamo tutti. Vuol dire che c’è lo spazio per avventurarci nel multiverso del cinema.

SL  Una parte importante della tua attività è quella didattica nella scuola Gian Maria Volonté. I ragazzi che arrivano sono in possesso già degli strumenti di base necessari per comprendere e realizzare il cinema?

Noi andiamo a scuola illudendoci che l’ambiente linguistico più importante sia la lingua storico naturale, cioè l’italiano, il dialetto o l’inglese. Invece il contesto linguistico più rilevante nel quale noi siamo immersi fin da subito, ancora prima di imparare a parlare, sono le immagini. I bimbi piccoli quando ancora non masticano il linguaggio parlato già usano i cellulari. Si relazionano con le immagini immediatamente, naturalmente direi. E questo mondo delle immagini è sempre più pervasivo. Fino a qualche anno fa c’erano il cinema e la televisione. Poi sono arrivati tutti gli altri supporti, DVD e videocassette. Oggi la quantità di dispositivi che ci permette di guardare immagini si è moltiplicata all’infinito. Noi abbiamo costruito una quantità di dispositivi per fruire delle immagini che virtualmente copre il 100% della nostra esperienza quotidiana ma non c’è nessuno che ci insegni nulla su come funziona quel linguaggio. Siamo schiavi di questa cosa meravigliosa che è il linguaggio audiovisivo. Siamo in grado di capirlo, perché fin da piccoli lo apprendiamo fruendo di milioni di ore di audiovisivi, ma non siamo assolutamente in grado di manipolarlo. Quando facciamo delle riprese con il cellulare facciamo tutto in maniera istintuale attraverso delle app molto semplici e a-problematiche, cioè non mi pongono il problema di che cosa significa quello che sto facendo, come se quello che si vede fosse il significato vero di queste immagini. Quando i ragazzi selezionati per la scuola Volontè arrivano a scuola sono esattamente in questa situazione. Con loro noi cominciamo da zero. Il nostro zero è: noi sappiamo già tutto del cinema ma la verità vera di questo tutto è che somiglia troppo al niente. Non sono in una situazione migliore neanche se hanno studiato cinema perché gli studi sul cinema sono specialistici e relativi ad aspetti secondari del linguaggio del cinema. La mia battaglia è quella dell’introduzione del cinema nelle scuole, che per me è un gesto quasi rivoluzionario.

AC Se volessi suggerire un titolo, un libro per imparare a decodificare il linguaggio del cinema, cosa raccomanderesti?

Ci sono molti libri bellissimi, anche sorprendenti. I tre usi del coltello di Mamet. Nelle sue lezioni mette in gioco alcuni degli elementi fondamentali della conoscenza del linguaggio del cinema. Lezioni di regia di Sergej Ėjzenštejn, vecchio libro frutto di una trascrizione delle lezioni tenute da questo grandissimo regista a Mosca per alcuni anni, dove si sente l’odore della pellicola. Lì c’è veramente il cuore profondo del fare cinema, perché è il punto di vista di una persona che ha visto il cinema nascere e svilupparsi e i registi che hanno avuto questo privilegio hanno dovuto inventare il linguaggio, per cui lo conoscevano meglio di quanto lo conosciamo noi. Noi lo diamo per scontato e questo è uno dei motivi per cui il nostro cinema è meno innovativo di quello delle origini. Il Film - evoluzione ed essenza di un’arte nuova di Béla Balàsz, un teorico che conosceva molto bene il cinema, pone delle questioni rilevantissime per comprendere la complessità del linguaggio, tutte domande ancora aperte. Ad alcune di queste domande prova a rispondere Pietro Montani, con i suoi ultimi libri, in particolare I destini tecnologici dell’immaginazione.

SL Il linguaggio cinematografico è stato cambiato dalla cosiddetta serialità?

Secondo me no. Le serie sono nate più o meno in contemporanea con i film. Le comiche di Charlot o quelle di Buster Keaton erano delle serie, piccoli episodi che la gente andava a vedere al cinema e ne vedeva 25, faceva il binge watching. La vera novità, secondo me una grandissima opportunità, è la destrutturazione dei formati. Io su una piattaforma posso vedere un film che dura un secondo o un film che dura un anno. Non solo: posso anche avere ipoteticamente dei prodotti non lineari, con degli spin off che si innestano sulla serie attraverso anche altri linguaggi, altri generi rispetto a quello della serie principale. Questa libertà secondo me però non deriva dalla serialità in sé: la serialità contemporanea delle piattaforme è un prodotto dell’era digitale, dell’epoca digitale, e permette una non linearità della narrazione. Da questo punto di vista le serie che noi stiamo vedendo sono vetuste, incredibilmente vecchie perché non fanno alcun passo avanti rispetto alle serie che vedevamo da ragazzini. La vera novità di questi strumenti, che io non disprezzo affatto come avrete capito, potrebbe essere il montaggio non lineare. Quello che Ėjzenštejn chiamava il montaggio verticale, è la vera grande novità che queste piattaforme rendono possibile: io posso ipoteticamente percorrere un racconto con una freccia temporale che va verso il futuro o con una freccia temporale che va verso il passato, ma allo stesso tempo posso percorrere nella spazialità orizzontale o verticale. Ma chi la sta utilizzando questa cosa? chi la sta sfruttando? Il montaggio non lineare è la cosa che in potenza potrà rivoluzionare il racconto cinematografico.

SL Nel 2020 in pieno lockdown hai realizzato Il giorno e la notte, sperimentando la regia a distanza. È facile inserire margini di sperimentazione così spinti nell’ambito delle dinamiche produttive italiane?

Non è affatto facile, però io sono abituato per carattere e per formazione a non dare niente per scontato. Certe cose che ci sembrano naturali perché sono sempre state fatte così possiamo scoprire, anche grazie allo sviluppo tecnologico, che sono tutt’altro che naturali e c’è la possibilità di farle in un’altra maniera. Il sistema produttivo ha le sue rigidità, da quelle giustamente sindacali a quelle tecnologiche, economiche e così via. Ma se io decido di fare un film chiuso dentro casa mia e racconto me chiuso in una cella — come nel film straordinario di Beckett intitolato Film — posso farlo. Rossellini pare abbia diretto il suo episodio di Ro.Go.Pa.G per telefono perché era inseguito dai creditori. Panahi è un esempio di chi deve fare di necessità virtù con la propria prigionia. Io insieme ai miei attori ho fatto questa esperienza durante il lockdown semplicemente perché si può fare. Non l’ho fatto perché sono uno che vuole rompere le palle al modo. Si può fare, basta organizzarsi bene.

SL C’è un film importante nella tua filmografia, Il passato è una Terra straniera, che è tratto da un libro. Ti capita spesso di trovare ispirazione nei libri?

Il regista è un cacciatore di storie, cerca di acchiapparle, farle prigioniere e poi raccontarle in un modo personale. Da questo punto di vista io non mi faccio nessun problema. Se incontro la storia che voglio raccontare in un libro ringrazio l’autore e se mi permette di raccontarla come penso che vada raccontata lo faccio. Se invece me la racconti tu a cena una storia e mi piace posso anche trasformarla in un film. Così come se un giorno mi sveglio e guardando la finestra vedo una situazione che mi suscita un’idea per un film. Tra l’altro quello è un film che mi è stato proposto. Ho letto la sceneggiatura e ci ho trovato qualcosa che mi corrispondeva. Ho capito solo dopo che cos’era, lavorando sulla sceneggiatura. Come chiave di lettura del bellissimo libro di Gianrico (Carofiglio, Ndr) ho utilizzato un altro libro, il Demian di Hermann Hesse. La cosa che mi interessava in quella storia era la figura del doppio e la figura guida, secondo me estremamente moderna come modulo narrativo. Proprio perché viviamo in una grande solitudine ci abituiamo ad avere a che fare o con noi stessi attraverso la nostra immagine oppure con delle persone nelle quali ci riconosciamo e alle quali permettiamo cose che non permettiamo a nessun altro. Persone che possono essere la moglie o il marito o l’amico. Rapporti forti, fortissimi che possono condurci in paradiso o all’inferno. Quel rapporto tra quei due ragazzi a me piaceva moltissimo, perché la riflessione che Gianrico pone attraverso il suo racconto è universale. Leggere questa cosa attraverso il Demian di Hermann Hesse mi ha anche permesso di tirare fuori qualcosa che mi riguarda molto profondamente: mettere la propria vita nelle mani di qualcun altro è un azzardo che ci piace.

SL Pensi che le nuove tecnologie siano anche uno strumento politico?

Il cinema è un prodotto tecnologico fin dal primo giorno della sua esistenza. Il fucile cronofotografico di Marey era un aggeggio ottico e meccanico. Tutta la storia del cinema è storia della tecnologia cinematografica. Senza la steady-cam i film di Kubrick non sarebbero stati gli stessi. Senza il grandangolo i film di Orson Wells o di Ėjzenštejn non sarebbero stati gli stessi. Il 28 mm ha rivoluzionato il linguaggio del cinema quasi quanto l’audio o il sonoro. Il fatto di poter muovere la macchina da presa è una cosa tecnologicamente affascinante che all’inizio non era possibile, i fratelli Lumière mettevano la macchina da presa sulle barche o sui camion per spostarla. L’evoluzione della tecnologia ha permesso una maneggevolezza delle macchine per fare il cinema sempre maggiore e oggi siamo arrivati al fatto di poterle persino nascondere. Un cellulare con una app si può trasformare in una cinecamera, posso modificare il diaframma e posso controllare tutti i parametri che poi permettono di proiettare quell’immagine su uno schermo di venti metri. Come per tutta la tecnologia, e di questo ne sa qualcosa il povero Icaro, queste evoluzioni liberano ed incatenano. Da una parte ti liberano, perché tu puoi fare delle cose incredibili, che fino al giorno prima non avresti mai pensato di fare. Allo stesso tempo ti incatenano, cioè i prodotti tecnologici sono figli di un contesto sociale, produttivo che fa sì che abbiano un senso. Se tu non lo capisci e non lo domini ne vieni dominato. La tecnologia pone un problema all’essere umano: l’essere umano sente di non essere sufficiente, di non avere un corpo sufficiente, di non avere una mente sufficiente quindi esterna, e mette fuori di sè funzioni cognitive, percettive e meccaniche. Centrale di tutti questi discorsi è la formazione degli individui. Una società che non cura la formazione dei propri individui e non dona loro una capacità analitica crea solo schiavi dell’immaginario. E la politica ha molto a che fare con l’immaginario. Se io non so decodificare l’immaginario divento schiavo di quella persona, di quel partito politico, di quella ideologia molto più facilmente.

AC Mi ha colpito la tua recente affermazione secondo cui l’arte è indomabile. A me sembra invece che siamo in un periodo in cui l’arte è molto addomesticata.

Quando noi parliamo di cinema parliamo di una porzione molto ristretta del cinema mondiale. Non sappiamo cosa succede nella cinematografia indiana o in quella africana. Restringiamo il campo alla nostra cinematografia. Non c’è dubbio che il cinema abbia a che fare col potere, come ha a che fare con il potere il giornalismo. Il problema è il modo in cui i cineasti si relazionano al potere, perché si rispecchia nelle loro opere. Si possono realizzare film con tecnologie molto moderne e realizzare dei film vetusti. Qui entriamo in un territorio molto particolare: il territorio della libertà espressiva, è giusto che quell’autore, regista e sceneggiatore abbia la libertà di fare ciò che vuole in maniera assoluta, così come è anche giusto che qualcuno lo critichi, aiutandolo a rendersi conto che sta sottoutilizzando i mezzi straordinari che ha in mano. Questa sottoutilizzazione è dovuta anche al fatto che il cinema ha a che fare col potere. Per mantenere il mio piccolo potere, cioè quello di finire sui giornali, di continuare a fare dei film, mi faccio i cazzi miei e alla fine semplicemente non rompo le scatole a nessuno. Sono comportamenti umani. Del resto nella filosofia, nell’arte in genere sta succedendo una cosa diversa? Siamo in una situazione per cui c’è una grande rivoluzione neo-illuministica del sistema delle arti e il cinema, oppure più o meno siamo tutti fermi lì? L’esprit nouveau, cioè il desiderio di rinnovare le cose e andare oltre le consuetudini, ha anche a che fare con la possibilità di rinunciare a dei privilegi. Non tutti sono disposti a farlo. Ci si lamenta tanto che le piattaforme controllano i contenuti, come le televisioni generaliste e gli autori dicono di non poter fare niente. Non è vero: si può dire di no, non lo faccio. C’è sempre una via d’uscita. La più luminosa è quella di affrontare, attraverso l’uso un po’ più spericolato di nuovi strumenti, il futuro con meno paura.

AC Il cinema italiano ha raccontato in maniera sufficiente gli ultimi 40 anni di vita del Paese? Io ho l’impressione che molti argomenti, come il terrorismo o lo strapotere della televisione, restino irrisolti.

Il cinema italiano, come gran parte del cinema occidentale, ha un grosso problema con alcune questioni che riguardano la cosiddetta realtà, ad esempio il lavoro. I personaggi dei nostri film non fanno un cazzo, beati loro. Sono tutte Madame Bovary, si occupano solo di amore, qualche volta di droga. Forse il nostro cinema rispecchia l’esperienza di vita di chi lo fa. Un modo per migliorare questa dinamica è, dal mio punto di vista, cercare di immettere nel cinema delle persone che appartengono a tante classi sociali diverse. Nella scuola Volontè, essendo una scuola pubblica e gratuita, per fortuna abbiamo un mix di composizione sociale estremamente interessante e queste persone nella loro complessità porteranno un punto di vista nuovo nel cinema. La fotografia del cineasta medio italiano è maschio, bianco, ricco e piuttosto in là con l’età. Bisogna cambiare questa fotografia per modificare un pochettino l’andamento della nostra cinematografia. Il cinema francese produce anche film di altri paesi, quelli cosiddetti della francofonia, che finisce per coinvolgere mezzo mondo dal Vietnam fino al Centrafrica, e in Francia escono film prodotti da cineasti di mezzo mondo. La musica da questo punto di vista è più avanti: il fenomeno della trap ha portato dentro il mondo della musica dei punti di vista diversi e infatti i ragazzini italiani si riconoscono in massa in questi eroi o antieroi, perché sono personaggi che comunque hanno a che fare con la realtà.

AC In Diaz hai affrontato una parte di quello che è successo a Genova in quei giorni, fra la scuola e Bolzaneto. Genova è stata la scure che si è abbattuta su quel movimento, probabilmente l’ultimo in grado di immaginare un mondo diverso. Su quella cesura non pensi ci sia ancora tanto da dire?

Si aspettano cineasti disposti a raccontarlo. Io ho raccontato un aspetto molto specifico delle vicende di Genova. Quello che mi interessava era raccontare il fatto che in un paese democratico sono stati sospesi i diritti delle persone e un luogo di condivisione, un luogo pubblico, è diventato un luogo di tortura a cielo aperto, sotto gli occhi delle videocamere. Questa è una cosa talmente gigantesca che va anche al di là della nostra immaginazione, al punto che tanti genitori dei ragazzi finiti dentro questo tritacarne non credevano nemmeno ai loro figli. Io ho ritenuto, come narratore, di appuntare la mia attenzione sulla questione della tortura di massa, che ha determinato giocoforza la fine del movimento. Fine che però dipende anche dagli scarsi fondamenti intellettuali e critici di alcune strutture di movimento. In Iran hanno ammazzato una ragazza che non portava il velo e stanno facendo una rivoluzione. Da noi hanno ammazzato Carlo Giuliani e abbiamo cominciato a litigare su quanto avesse colpa lui di essere morto. Noi abbiamo un problema come società rispetto a cosa ci succede sotto il naso. Alcuni dirigenti di quel movimento non hanno brillato per capacità di rilancio, il movimento dopo un anno era sostanzialmente scomparso. Il contributo che ho dato io, mettendo anche in gioco la mia carriera, è stato quello di raccontare l’indicibile, perché non esiste al mondo un esempio simile a Diaz. Non c’è nel mondo nessun film nel quale si racconta il fatto che un movimento viene affogato nel sangue in un paese democratico. Il movimento è nato e morto a Genova perché lo Stato Italiano ha praticato la tortura di massa e ha talmente distrutto lo spirito dei cittadini presenti in questo luogo, e trasmesso l’idea che chi ci prova finisce male, che per l’ennesima volta tutto il nostro paese ha fatto un passo indietro. Anche rispetto agli anni ‘70 il nostro paese ha fatto dei passi indietro. Abbiamo aspettato 40 anni per vedere dei film come quelli di Bellocchio o leggere dei libri come quello di Pomella sulla vicenda Moro minimamente problematici. Abbiamo un problema nazionale che porta alla rimozione dei fatti ma anche delle opere che trattano i fatti. Le opere che trattano i fatti vengono annegate in un mare di eccezioni, piccole polemiche, gelosie politiche che non meritiamo né come generazione né come paese.

AC In Prima che la notte fai partire il film con l’uccisione di Fava, poi però vediamo il gruppo di ragazzi che si forma intorno a lui che diventa un messaggio di speranza. In Sole cuore amore la speranza fa un passo indietro.

Sole cuore amore è un film che racconta la fine di una vita. È stata una decisione non facile raccontarla fino in fondo, ma in qualche modo ho pensato di farlo proprio per rispettare queste persone che muoiono sul lavoro. Sono migliaia. Ho deciso di prendere un rischio pure questa volta e raccontare nuovamente una cosa non raccontabile. Non c’è nessun lieto fine in questa storia, c’è solo una fine, la fine della vita di questa persona. O ne prendiamo atto o facciamo finta di niente e continuiamo come prima. Sole cuore amore è un po’ una provocazione. Io avrei voluto essere fidanzato di questa bellissima donna, meravigliosa, piena di energie, che però muore e suo marito, che potrei essere io, non ha potuto fare niente. Un meccanismo dentro il quale questa persona, come migliaia o decine di migliaia se non milioni di altre persone, finisce grazie a un sistema economico politico che ha qualche problema. Nel caso di Fava si poneva un problema etico-politico completamente diverso. Fava è stato ucciso da un potere che ha voluto mostrare a tutti che se tu ti ribelli muori. Prima che la notte non è meno anarchico di Sole cuore amore, anzi forse lo è di più perché contempla l’utopia. L’utopia è che tu puoi fare dei passi avanti, anche nelle situazioni più estreme, se ti dai gli strumenti. Fava era un intellettuale, un artista, un poeta, un regista. Era una persona che produceva senso e ha costruito un gruppo di persone che ha continuato la sua attività. Quella è un’utopia, è nelle cose, è nell’operato di Pippo Fava, e mi sembrava sbagliatissimo finire il film con la morte di Fava perché avrei finito per dare ragione alla mafia. Noi ancora oggi mettiamo in scena le opere di Fava quindi è stato tragicamente inutile ammazzarlo. Per me il senso di un’opera non si ricava da quello che io voglio raccontare ma da quello che io posso raccontare.

SL Il cinema per come lo conosciamo o per quello che potrà rappresentare nella sua evoluzione sopravviverà alla chiusura delle sale cinematografiche?

È già sopravvissuto. È un processo già accaduto negli anni ‘50. Quando la televisione ha cominciato a proporre cinema, il pubblico è finito tutto dentro la televisione. Quello che è nei cinema attualmente è un residuo di quel pubblico. Fino alla fine degli anni ‘60 in Italia venivano staccati 800 milioni di biglietti. Vuol dire che i 50 milioni di abitanti dell’Italia andavano al cinema un numero importante di volte. Nel 1980 erano diventati meno di 100 milioni. Che cos’era successo lì in mezzo? La televisione in Italia aveva preso piede. La sala è un morto ambulante al quale noi vogliamo un gran bene ma è uno zombie con un futuro. Il futuro delle sale cinematografiche ha a che fare con la capacità di chi le gestisce di andarsi a prendere il pubblico. Anche perché gli schermi del cinema diventano sempre più piccoli e quelli di casa diventano sempre più grandi. Come per il libraio dovrà accadere con l’esercente cinematografico: a me piace andare al cinema e avere a che fare con un essere umano, qualcuno che mi consiglia cosa vedere. Se devo andare al cinema e mettere un gettone allora me ne sto a casa. Nel libro racconto la storia di Tarantino che come Moretti e tanti altri, si è preso due cinema e sta facendo la multiprogrammazione. È diventato un esercente e la gente va a vedere i film, pare che abbiano un successo clamoroso. Poi i fenomeni sono in continuo cambiamento perché se la sala cinematografica avrà un ruolo diverso anche dal punto di vista tecnologico magari si ricaverà una nicchia più interessante, più grande. Si possono fare tante cose in una sala cinematografica, una volta si andava lì per fare l’amore.

AC Cosa deve avere un prodotto artistico per essere interessante per te?

Mi deve emozionare, mi deve sorprendere, mi deve mettere in discussione, non mi deve lasciare indifferente. Ci sono dei bellissimi film che mi lasciano completamente indifferente, e ci sono dei brutti film che invece mi toccano. È la forza del cinema. Non è detto che i film importanti della storia del cinema siano quelli più belli.

 

 

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L'articolo integrale è pubblicato nel n. 6 di Awand, inverno 2022-2023.
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Stefano Lorusso
Stefano Lorusso

Medico e cinefilo, affianca da anni al camice bianco l’amore per il cinema, considerandolo la migliore delle terapie. È stato collaboratore della riviste Nocturno e  I-filmsonline. Dal  2010 è nella redazione di Paper Street , per cui segue ogni anno la Mostra del Cinema di Venezia.  È autore di saggi pubblicati sulle raccolte Il Divo di Paolo Sorrentino – La grandezza dell’enigma (2012) e Cento registi per cui vale la pena vivere (2015), editi da Falsopiano. Ha collaborato alla creazione del portale Longtake con schede sul cinema di Spielberg, Antonioni, Rosi, Wenders. Nel 2017 fonda il circolo di cultura cinematografica “Formiche Verdi”, attivo nell’organizzazione di numerose manifestazioni e rassegne. Speaker radiofonico, cineblogger, collezionista, esplora il cinema in molte direzioni, dalla ricerca musicale a quella iconografica legata alla produzione di manifesti e locandine.

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